Sarà l’abitudine quotidiana dettata dai social a dover condividere tutto con tutti, o sarà quel che sarà, ma ultimamente nel mondo dello sport non si contano più gli atleti che confidano ai tifosi le proprie problematiche di salute mentale.
Per dire: nel mondo del golf, in tempi non sospetti e dunque nel lontano 2019, Chris Krik, campione del Pga Tour, è stato il primo a raccontare ai guardoni delle cose del green del proprio alcolismo e della depressione che ne era stata la causa scatenante. Da allora, sul circuito americano, i casi di coming out sullo stato mentale si sono susseguiti, finendo con l’avere tra i protagonisti anche atleti di primissimo livello come Matthew Wollf e Bubba Watson.
Il primo, 24enne californiano dal presente e dal futuro stellare, ha confidato di essersi fatto squalificare nel secondo giro del Masters di quest’anno, perché non si sentiva più in grado di reggere la pressione mediatica.
Il secondo, invece, ha appena pubblicato un libro autobiografico dal titolo perfetto come “Up and Down”, nel quale racconta il suo personalissimo e travagliatissimo rapporto con l’ansia e la depressione.
Will Wilcox, giovane fenomeno dell’Alabama, si è ritirato quest’anno dalla carriera sul Pga Tour perché, piagato da un’ansia infinita, non riusciva più a muovere il bastone all’inizio dello swing.
Lo stesso Rory McIlroy non è stato immune dalle problematiche connesse alla salute mentale, se è vero come è vero che ha recentemente dichiarato di aver lottato negli ultimi anni nel tentativo di alleggerirsi le spalle da tutta l’immensa mole di pressione che si sentiva addosso.
Come c’è riuscito il nordirlandese? Con un digital detox e poi, soprattutto, imparando a rimettere le cose in prospettiva e a non far coincidere più la persona che è con gli score che segna: ipse dixit.
Però, al netto di Rory, Bubba o Wollf, il problema della salute mentale resta eccome, e sui circuiti mondiali è certamente più profondo di ciò che appare in superficie.
La domanda, a questo punto, è doverosa: com’è possibile che atleti vincenti, con milioni di dollari in banca, si sentano infelici?
La risposta, forse, ce la può fornire niente meno che Tolstoji: “il peggiore errore che possiamo fare è allontanarci da noi stessi”, scrive il romanziere russo.
Cosa significa, in definitiva?
In buona sostanza, ciò che nel 400 a.c. sostenevano già gli antichi greci: la felicità non sta in nient’altro se non nella realizzazione di ciò che si è. Gnozi seautòn, conosci te stesso e realizzalo, ripeteva non a caso l’oracolo di Delfi.
Da parte loro, i campioni del Tour realizzano se stessi alla perfezione fino allo sbarco nell’empireo del golf mondiale, ma è lì che iniziano le vere difficoltà. Gli sponsor. Le aspettative. Il pubblico. I social media. Gli haters. I contratti. Gli avversari sempre più agguerriti. La necessità di essere sempre performanti. E, guarda caso, è stato lì, sul crinale più alto del successo, che Matthew Wollf è arrivato al punto di non volere più giocare a golf di fronte alle persone, per paura di non esserne all’altezza. Per non deludere i fan.
Ed è lì, in quel preciso istante, che i campioni iniziano a vivere non la vita che avevano sempre sognato, ma una vita a loro insaputa, quella che ha come scopo principale la realizzazione dei desideri dell’apparato che li gestisce. Ed è ancora lì che i campioni iniziano a desiderare di fuggire da loro stessi e dall’ingranaggio nel quale sono finiti. Esattamente come accade a tutti noi comuni mortali.
Come se ne esce? O come Wilcox, allontandosi e ritirandosi, oppure come ha fatto McIlroy: rimettendo le cose in prospettiva.
Conosci te stesso, realizzalo, e fallo secondo misura: eccoli qui i tre pilastri dell’etica greca. E Dio solo sa se non ce ne sarebbe il bisogno anche oggi, di un po’ di quell’etica lì. Pure sul Tour.