Dicono i saggi che non possiamo essere certi degli aspetti peculiari del futuro, ma il cambiamento in sé è una certezza ineludibile: la discontinuità – sostengono- sarà la caratteristica più saliente della realtà futura.
Evidentemente, però, i saggi non giocano a golf. O meglio: con ogni probabilità non conoscono Tiger Woods.
Voglio dire: passano gli anni, i decenni, cambiano gli swing, le mode, le attrezzature, i Tour, ma Tiger resta sempre e comunque la stella polare del golf mondiale.
Basta osservare quello che è successo la settimana scorsa a Los Angeles, nel corso del torneo del Genesis Inv.: per la terza volta in stagione ha vinto Jon Rahm (il che già sarebbe un mezzo miracolo sportivo), ma gli occhi del mondo erano e sono stati sempre e solo per lui, per la Tigre.
Azzoppato, acciaccato, spelacchiato, invecchiato, ma comunque enorme nella sua presenza e nella sua prestazione: meno 1 sul totale, 45simo alla pari dell’astro emergente Tom Kim.
Ora: cosa possiamo imparare noi umani da questo Tiger? Tecnicamente poco, in effetti, se solo ci fermiamo per un attimo a riflettere che, nonostante gli infortuni e il fisico ormai fortemente menomato, Woods riesce comunque a swingare il bastone a 120 miglia all’ora. Roba impensabile per noi altri.
Eppure… Eppure c’è qualcosa di lui a cui possiamo aggrapparci anche noi: l’orgoglio e l’attenzione e la passione e la cura che mette nel suo gioco. E in ogni colpo che tira: che sia per chiudere in 74 o in 67, l’atteggiamento di Tiger non cambia mai. Anzi, non è mai cambiato in questi venticinque anni che la storia del golf ci ha regalato di lui.
In questo Tiger Woods deve essere da esempio per tutti, golfisti o non golfisti.