David F. Rook era un golfista atipico. Un buon giocatore, sulla carta 4 o 5 di handicap, ma alla fine delle 18 buche il suo score raramente segnava meno di 80; nonostante questo giocava un bel golf. Sapeva lavorare la palla, aveva una visione completa del gioco e sapeva tirare dei colpi di recupero inimmaginabili, ma immancabilmente in ogni giro faceva un paio di tripli o quadrupli bogey che distruggevano il suo score.
“Il mio golf è perfetto all’83,3%” diceva David; 15 buche giocate attorno al par del campo, con un paio di birdie e qualche occasionale bogey, e tre buche di follia pura, in cui poteva succedere di tutto: ganci dal tee che si perdevano in aree inesplorate del bosco, socket dal centro del fairway che finivano in acqua dove non ricordavi neanche che ci fosse un lago, “lamate” dal bunker che sibilavano fuori limite 20 o 30 metri dietro al green. David non se la prendeva mai: imprecava con il suo caratteristico accento anglosassone, rideva di gusto dei suoi colpi erratici e si lasciava prendere in giro da noi, gli amici con cui giocava abitualmente.
Ormai sono passati tanti anni dall’ultima volta che abbiamo giocato insieme: finita la sua esperienza di lavoro in Italia David è tornato a vivere oltre Manica, ma il suo spirito del gioco pervade ancora le nostre “partitelle” fra amici. Jack Nicklaus disse una volta “l’unica cosa costante nel golf, è l’incostanza”: prendiamone atto e dimentichiamoci dello score, divertiamoci a tirare i colpi, proviamo a giocare recuperi impossibili, godiamo di quella sensazione che ti lascia nelle mani, alla fine delle diciotto buche, il ricordo di quei tre o quattro colpi perfetti, usciti dalla faccia del bastone esattamente come li avevi immaginati.
Con il passare del tempo ho abbracciato sempre di più questa filosofia, e anche se negli ultimi anni i miei score arrancano per stare sotto gli 80, mi diverto molto di più rispetto a quando l’unico obiettivo era quel numero finale, per calare di qualche virgola il mio handicap.
Ammetto che mi piace(rebbe) giocare regolarmente intorno al par, ma prendo quello che viene, tiro qualche bel colpo e gioco le mie buche “alla David” senza curarmene troppo: il tempo che riesco a dedicare al golf è poco, o comunque meno di quello che vorrei, ma lo passo con gli amici con cui sono cresciuto e nessuno di noi lascia che un paio di tripli bogey possano rovinarci la giornata.
Non sto dicendo che non ci sia spirito di competizione: le nostre partitelle per la birra sono sempre molto combattute, e vi assicuro che vincere una buca con il doppio bogey, oltre a infondere un certo senso di ilarità in tutti quanti, dà anche una certa soddisfazione e restituisce un po’ di dignità al golf giocato male.
E allora viviamo appieno quelle 15 buche su 18 giocate bene, quell’83,3%, lasciamoci pervadere dalle emozioni che ci regalano quei pochi colpi veramente belli che tiriamo in un giro, cogliamo il senso comico delle flappe, degli shank, dei ganci e degli slice e lasciamo che lo score sia solo un numero che, molte volte, non racconta tutta la verità su quanto ci siamo divertiti sul campo da golf.