Il caddie (o, meno bene, caddy), termine che possiamo tradurre in italiano con portabastoni, costituisce un ruolo che a livello dilettantistico di fatto non esiste (quasi) più da decenni, ma a livello professionistico è figura indispensabile e in piena auge.
Sappiamo bene, infatti, che un buon caddie deve – a seconda dell’occasione – essere umile portabastoni, illuminante psicologo sportivo, tifoso accorato, amico fidato o strigliatore deciso; e ovviamente deve sapere quale ruolo assumere in ciascun momento della gara. È inoltre fondamentale – o almeno così voleva la leggenda – che aderisca ai i tre “up” che gli sono richiesti: show up, keep up, shut up (presentarsi, tenere il passo, tacere).
Di conseguenza, la letteratura golfistica pullula di libri dedicati a questa figura, e offre un panorama variegato da cui è piacevole scegliere le proprie letture. In particolare, negli ultimi mesi sono usciti tre volumi di cui val la pena parlare.
Il golf dei caddie. Anatomia di una professione
Questo volume, scritto dal sociologo Antonio Censi e uscito in occasione dell’ultima Ryder Cup, ha il grandissimo merito di esaminare la situazione italiana e di parlare del lavoro dei caddie del tempo che fu (perché appunto, sappiamo bene che il caddie per un dilettante è figura oggi assai rara). L’autore dipana la sua ricerca attorno a due temi:
- l’avviamento al golf dei caddie, i più bravi e volenterosi dei quali hanno avuto la possibilità di imparare il gioco fino al punto di diventare maestri (prima dell’istituzione della Scuola Nazionale Professionisti);
- le relazioni che intercorrevano all’interno dei circoli tra i soci e i caddie, con l’intento di mostrare come questi ultimi, attraverso il contatto ravvicinato e prolungato nel tempo con i membri di un ceto sociale diverso, abbiano assimilato codici di comportamento estranei alla propria classe di origine.
Il libro è interessante perché ci presenta – con piena competenza sociologica – un concetto di caddie che per noi oggi è in sostanza estraneo, ma che era la normalità fino a qualche decennio fa. Era infatti pratica comune in passato diventare pro dopo avere cominciato il percorso golfistico proprio come caddie (un nome su tutti: Costantino Rocca).
Il volume è arricchito da tredici preziose interviste ad ex caddie, che raccontano storie professionali grazie alle quali riusciamo ad apprendere fatti e nozioni che altrimenti col tempo sarebbero destinate all’oblio, ma che è molto importante che siano conosciute. Si tratta insomma di un’analisi storica e sociologica di un mondo ormai scomparso, ma che ha contribuito a definire una parte di certo non secondaria del golf così come lo conosciamo oggi. Va dunque fatto un plauso all’autore per aver condotto una ricerca scientifica che riesce a trasmetterci con vividezza la struttura del mondo dei caddie nel secolo scorso, e per averla esposta con una leggerezza di penna che rende la lettura assai piacevole.
The Legendary Caddies of Augusta National. Inside Stories from Golf’s Greatest Stage
In questo caso il taglio è molto diverso. Questo libro esamina il ruolo dei caddie neri ad Augusta, ovvero quello che insieme a St. Andrews è con buona probabilità il gruppo di caddie più famoso e importante nell’intera storia del golf.
Anche qui, come nel libro di Censi, la sociologia è inevitabile, perché il ruolo del caddie non prescinde dal concetto di classe sociale; ma va detto che la relazione caddie-giocatore è di norma profittevole per entrambe le parti, e in più i racconti di prima mano rendono il libro vivo e vibrante.
Impariamo ad esempio quali erano il ruolo e la figura del caddie master, decisamente lontani da quello che intendiamo noi oggi: una persona che doveva mediare tra due esigenze contrapposte (quella del giocatore, interessato a servirsi dell’operato di un caddie professionale, e quella del caddie stesso, alla ricerca di una fonte di reddito se possibile continuativa), un “padrone” duro quando necessario ma in fondo bonario e comprensivo. (Anche il libro di Censi illustra bene il ruolo.) Leggiamo di storie che ormai fanno parte della leggenda, come quella di Pappy, il caddie di Ben Hogan nelle vittorie del 1951 e 1953 e nume tutelare di tantissimi caddie venuti dopo di lui; o quella di Carl Johnson, che guidò Ben Crenshaw nelle sue due vittorie, tra la quali quella assolutamente emozionale del 1995, una settimana dopo la morte del suo maestro e mentore Harvey Penick.
Ad Augusta le cose a livello professionistico cambiarono nel 1982, e se fino ad allora erano obbligatori i caddie locali dal 1983 ai giocatori fu permesso di servirsi dell’operato dei loro caddie soliti. Da lì, tra le altre cose, nacquero le mappette del campo, che iniziarono a circolare proprio allora – fino a quel momento i caddie si affidavano soltanto al loro occhio e alla loro memoria. Ovvero, si parla di nozioni intangibili ma preziosissime perché, come scrive Oliver Horowitz in An American Caddie in St. Andrews. Growing Up, Girls, and Looping on the Old Course,
patterns form; common mistakes become obvious.
Col risultato che
I’m finally learning the Old Course. I mean, really learning it.
Non è questa l’essenza del golf? E non è la pratica come caddie una porta privilegiata verso l’apprendimento dei segreti di un campo? Tutto torna, e in questo senso l’analisi di Antonio Censi di cui si diceva prima è perfettamente centrata.
Per tornare ad Augusta, rimane da sottolineare il fatto che le voci di quei caddie si stanno spegnendo, ma rimangono le loro memorie. E la leggenda cresce.
The Secret Tour Caddy. A Year in the Life of a Professional Caddy on the European and PGA Golf Tours
L’ultimo libro di cui parliamo oggi, anch’esso freschissimo di stampa, è il racconto lungo un anno della vita di un caddie professionista sul DP World Tour (l’ex European Tour). Il vero valore di questo volume è lo sguardo di prima mano sul golf professionistico: è insomma come essere per un anno intero (2023) dentro le corde.
La narrazione si dipana tra fatti minuti e avvenimenti significativi. Sì, perché da una parte c’è la realtà molto prosaica della vita del caddie, fatta di lunghi viaggi aerei, jet lag, lavanderie a gettone e così via; dall’altra c’è il privilegio di assistere in prima persona ad un tour mondiale, con tutto ciò che ne può conseguire. Leggendo la cronaca di un anno di lavoro si apprendono dettagli golfistici che potrebbero non essere così scontati.
Il libro ha un ritmo in apparenza lento, con uno schema abbastanza fisso (il racconto di ciascuna settimana di lavoro per il cliente dell’autore); ma se si ha la pazienza di andare oltre a quello che può essere percepito come un limite ci si allinea per così dire in maniera perfetta col punto di vista del narratore, e allora i vari fatti e nonfatti del golf professionistico appaiono in una luce diversa. Il nostro secret tour caddy ci porta nel vivo dell’azione, e con il medesimo godimento possiamo leggere delle gesta degli eroi del DP World Tour e del contenuto della sacca di un giocatore; di Koepka che vince il PGA Championship e di che cosa significa davvero fare il caddie quando piove:
I hate playing golf in the rain. There are few things less enjoyable in life. One of those, however, is caddying in the rain.
Come le altre presentate qui, è una lettura appassionante. Forse per felici pochi di morantiana memoria, ma da cui apprendiamo retroscena e segreti di un golf nel contempo assolutamente prosaico e splendidamente magico.