La sindrome del “ticchio”

C’è una patologia che presto o tardi colpisce quasi tutti i golfisti, e generalmente è più diffusa fra i giocatori di buon livello. È una sindrome strana, che si manifesta solo attorno al green, e più sei vicino più i sintomi diventano evidenti. Nella letteratura internazionale ha trovato diverse definizioni, ma quella che ha attecchito è stata coniata dallo scozzese Tommy Armour. Stiamo parlando dello “Yip” o, con un neologismo più nostrano, il “ticchio”.

Ne hanno sofferto anche le grandi leggende del golf, da Ben Hogan a Tom Watson, da Ernie Els a Tiger Woods, e una volta che ti colpisce non si guarisce più; puoi arrivare a dominarlo, a controllarlo in qualche modo, ma sarai per sempre un portatore sano e il ticchio resterà lì, dormiente in un anfratto del tuo cervello, pronto a manifestarsi quando meno te lo aspetti.

Nessuno è immune dal “ticchio” (photo: Raffaele Canepa)

Jack Nicklaus una volta disse

“Ci vogliono centinaia di colpi buoni per acquisire la sicurezza, ma ne basta uno sbagliato per perderla del tutto”.

Il ticchio fa proprio questo, e non è come un gancio o uno slice: questi sono incidenti di percorso, sono colpi che nascono dalle mani. Il ticchio no. Il ticchio è nella testa.

Io ne sono affetto, così come lo sono gli amici con cui gioco abitualmente (non ci sono evidenze scientifiche, ma molto probabilmente il ticchio è contagioso); normalmente quando uno di noi tira un “colpaccio”, ridiamo e ci prendiamo in giro, ma in questo caso no, non c’è niente su cui scherzare: dopo la flappetta da bordo green rido poco. In questo periodo ne soffro di una forma particolarmente acuta, che si manifesta con flappa-flappa-top dalla parte opposta del green. Non so come porvi rimedio, e a poco servono le ore passate in pitching green ad approcciare: ogni tanto ho l’illusione di avere finalmente imparato di nuovo a tirare quei colpetti da bordo green, ma in campo, al primo green mancato di pochi metri, percorro la camminata che mi separa dal colpo successivo pensando “Oh, no… devo approcciare”, e comincio subito a sentire nelle mani quella sensazione dell’impatto sporco.

Di ogni brutto colpo che posso tirare in campo, questo è il più deleterio, il più sconfortante, l’unico che veramente mi fa ribollire il sangue e per un attimo mi fa pensare “non gioco più”. Non so se mai tornerà ad essere quiescente, ma so che l’unico modo che ho per scoprirlo è tornare in campo la prossima volta e al primo green mancato provare a tirare un altro di quei colpetti infernali, sperando non tanto di metterla vicina, ma quantomeno di poter giocare il putt sul colpo successivo.


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