US Open: L’Inferno è Tornato!

US Open: L’Inferno è Tornato!

C’è qualcosa di sadico e meraviglioso nello US Open. È il torneo che prende i migliori golfisti del mondo, li mette su un campo progettato da un architetto con evidenti problemi di empatia, e poi li guarda mentre cercano di salvare il bogey con lo stesso entusiasmo con cui si fa la dichiarazione dei redditi. Quest’anno si torna a Oakmont, e se non ti tremano le mani solo a sentire quel nome, o sei Scottie Scheffler o non hai mai giocato a golf.

Dal 12 giugno, il mondo del golf si ferma per guardare chi riuscirà a non farsi spezzare le ginocchia da rough alti come siepi, green più veloci di un’autostrada e fairway stretti come corsie d’ospedale. E noi siamo qui, come sempre, a raccontarvi tutto: i favoriti, gli outsider, le trappole, le curiosità e, ovviamente, i numeri. Perché il golf è anche (soprattutto) una questione di numeri.

Il campo che non perdona, non dimentica e non si annaffia

Oakmont Country Club è un campo che non ha bisogno di presentazioni. Ma se proprio dobbiamo: par 70, 7.372 yard, rough da 12 cm, green con stimpmeter tra 14 e 14.5 (cioè: metti la pallina sul green e lei parte da sola per un viaggio spirituale). Non ha laghi spettacolari o canyon hollywoodiani. Ha solo una missione: farti soffrire. È stato costruito nel 1903 da Henry Fownes, un industriale dell’acciaio che, evidentemente, aveva una visione molto personale del concetto di “divertimento”. La sua filosofia era semplice: “Un campo da golf non dovrebbe premiare il colpo mediocre.”

La prima buca è già una dichiarazione d’intenti: par 4 da 488 yard, nel 2016 fu il più difficile del torneo con una media di 4.45 colpi e ben 160 bogey registrati e solo 30 doppi nei primi due giorni. Il par-3 della 8 può arrivare a 300 yard. Sì, un par 3 da 300 yard dove nelle giornate di prova la maggior parte dei giocatori ha tirato fuori il drive dalla sacca. E poi c’è lui: il famigerato Church Pews Bunker, 100 yard di sabbia e creste erbose che sembrano panche da chiesa ma servono solo a farti perdere qualsiasi fede in silenzio.

Il campo non ha un sistema di irrigazione centralizzato. L’erba viene gestita manualmente, buca per buca. Perché? Perché l’obiettivo è avere condizioni secche, dure, spietate. I giocatori durante i giri di prova l’hanno definito “cooked beyond belief”, ovvero preparato per far male.

E poi c’è la storia. Questo è il percorso che ha ospitato più US Open di qualsiasi altro: dieci. A Oakmont Jack Nicklaus vinse il suo primo major nel 1962, battendo Arnold Palmer in casa sua. Qui Angel Cabrera vinse nel 2007 con +5 e Dustin Johnson vinse nel 2016, nonostante una penalità misteriosa che ancora oggi fa discutere. Ogni edizione ha lasciato cicatrici. E quest’anno, la storia è pronta a scrivere un nuovo capitolo.

I Super Favoriti: sempre il solito Scheffler

Scottie Scheffler è il favorito. Lo è sempre, e quest’anno lo è ancora di più. Ha dominato la stagione, ha vinto ovunque, ha numeri da videogame. Ma proprio perché è così scontato, non lo menzionerò oltre. Parliamo invece di chi potrebbe davvero sorprendere, o deludere.

Rory McIlroy, ad esempio, è un caso interessante. Dopo la vittoria al Masters sembrava pronto a prendersi tutto, ma le ultime uscite raccontano un’altra storia. Il +9 al Canadian Open è stato un campanello d’allarme, ma ancora più preoccupanti sono i dati sul drive: è sceso al 14° posto in strokes gained off the tee, con una dispersione generale che a Oakmont può diventare letale. Il suo putting sui green veloci è sempre stato un punto debole (97° in putting su stimpmeter >13.5), e se aggiungiamo un driver instabile, il mix è esplosivo. Rory ha il talento per vincere ovunque, ma oggi come oggi, non sembra nella condizione mentale e tecnica per sopravvivere a Oakmont.

Bryson DeChambeau, invece, è in piena forma. Due secondi posti consecutivi nei major, primo in strokes gained tee-to-green nelle ultime otto settimane, secondo in driving distance (323.1 yard), e quarto in proximity da oltre 200 yard. Ha già giocato Oakmont nel 2016, chiudendo T-15 al debutto da pro. Il suo gioco è più maturo, più controllato, e se riesce a non complicarsi la vita nei 100 metri finali (è 112° in strokes gained around the green), sarà lì fino alla fine.

Jon Rahm è il grande punto interrogativo. Ha un gioco che sembra cucito per Oakmont: terzo in greens in regulation (72.4%), secondo in scrambling (68.1%), quinto in strokes gained around the green. Se il fisico regge i 4 giorni e le motivazioni tornano, è uno dei pochi che può dominare il campo invece di subirlo.

E poi c’è Patrick Cantlay. Non è il nome più scintillante, ma è uno dei più solidi. È ottavo in strokes gained tee-to-green, sesto in bogey avoidance, e ha una delle migliori medie di colpi su campi con green veloci (69.3). Il suo gioco è metodico, paziente (forse un po troppo), e raramente si lascia andare a errori grossolani. A Oakmont, dove ogni colpo fuori linea può costare due colpi, questa è una qualità fondamentale. Non ha ancora vinto un major, ma ha chiuso in top 10 in tre degli ultimi cinque US Open. Se c’è un campo dove la sua calma glaciale può fare la differenza, è questo.

I Super Outsider: quelli che i dati amano e i fan ignorano

Denny McCarthy è uno dei migliori puttatori del circuito: secondo in strokes gained putting (+0.91), quarto in scrambling (66.7%), e ha chiuso T-8 al PGA Championship. Su un campo dove il par è un successo, il suo gioco corto può fare la differenza. Non ha mai vinto un major, ma ha il profilo perfetto per sopravvivere a Oakmont.

Matthieu Pavon ha vinto a Torrey Pines, campo simile per setup, ed è ottavo in tee-to-green nelle ultime 10 settimane. È anche quinto in proximity da 175-200 yard e ha chiuso quinto a Pinehurst nel 2024. Non è solo in forma: è anche abituato alla sofferenza.

Ben Griffin è un nome che non fa rumore, ma i numeri parlano per lui: sesto in fairways hit (71.2%), dodicesimo in bogey avoidance, diciottesimo in strokes gained total nelle ultime sei settimane. Non farà fuochi d’artificio, ma potrebbe essere il classico nome che spunta nella top 10 e nessuno capisce come.

Ultimo nella lista è Joaquín Niemann, che sta volando sul LIV e ha numeri da top player: è settimo in strokes gained tee-to-green, terzo in proximity da 150-175 yard, e ha una media di 68.9 colpi nelle ultime cinque uscite. Ha già dimostrato di saper reggere la pressione nei major, e il suo gioco aggressivo ma preciso potrebbe sorprendere su un campo dove tutti giocano sulla difensiva. Se riesce a evitare buche disastrose come spesso gli capita, può essere la mina vagante del torneo.

Oakmont non è un campo. È un rito di passaggio.

Lo US Open 2025 non sarà solo un torneo. Sarà un esame. Un test di sopravvivenza. Un viaggio dentro la mente dei migliori golfisti del mondo. Oakmont non premia il talento puro. Premia la disciplina. La pazienza. La capacità di accettare il bogey come un successo e il par come un miracolo. È un campo che non si gioca: si affronta. E chi lo affronta senza paura, con lucidità e con rispetto, può uscirne vincitore.

Chi alzerà il trofeo domenica sera non sarà solo il miglior giocatore della settimana. Sarà il più resistente. Il più lucido. Il più calmo quando tutto intorno crolla. Sarà uno che, mentre gli altri si disperano per un triplo bogey, riesce a salvare un par da 12 metri e a sorridere. Sarà uno che ha capito che a Oakmont non si vince. A Oakmont si sopravvive. E chi sopravvive, entra nella leggenda.

Perché in un’epoca in cui il golf è spesso spettacolo, Oakmont è ancora puro esame. E domenica sera, quando il sole calerà su quei green lucidi come vetro, ci sarà un solo nome inciso sul trofeo. Ma decine di storie da raccontare. E tutte inizieranno con la stessa frase: “C’era una volta, a Oakmont…”


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