Il futuro del golf? Dipende dalla cultura

Anche se siamo nella settimana del terzo Major e dunque di U.S.Open, e anche se il mondo del golf è stato appena messo a soqquadro dalla vittoria di una donna sul DP World Tour, ecco, nonostante tutto questo bailamme, permettetemi di fare un piccolo passo indietro per parlarvi ancora un po’ dello scontro tra il Pga Tour e il circuito LIV dei sauditi.

Or dunque: alla chiusura del primo torneo organizzato da Greg Norman a Londra e del contemporaneo Canadian Open conquistato in fashion style da Rory McIlroy, è indiscutibile che il Pga Tour abbia vinto per K.O. tecnico il primo round contro i sauditi. Ma attenzione: il match non è finito e la strada è lunga e impervia per il circuito americano. E non solo perché si dice che ci siano altri nomi pesanti pronti a trasferirsi dallo Squalo Bianco. Nossignore. Il problema è più vasto e in primis riguarda il DP World Tour, che, sebbene all’inizio delle ostilità si fosse dichiarato sulla stessa linea d’intenti del Pga Tour, e quindi pronto a non permettere l’accesso ai suoi tornei ai transfughi accecati dai milioni dei petroldollari, adesso, nel momento cruciale della partita, resta in silenzio e non batte un colpo.

Certo, la posizione di Keith Pelley, il CEO europeo, è tosta, compresso com’è tra il bisogno di avere visibilità per il suo circuito e la necessità economica di non inimicarsi il popolo arabo, vista la quantità di tornei targati DP World Tour che si disputano lungo il Golfo Persico.

Ma, al netto di Keith Pelley, il problema vero per il futuro del Pga Tour e dello spirito del golf per come lo conosciamo oggi è un altro ancora. Ed è decisamente più vasto. Ed è legato a un fattore di prospettiva geopolitica.

Per come stanno andando certe cose, ormai da parecchio tempo si parla infatti di declino dell’Occidente, destinato a scontrarsi e a soccombere nei confronti dello sviluppo imperioso di un’altra parte di mondo: tradotto, Cina, Penisola Arabica, India e quant’altro. All’interno di questo quadro macroeconomico s’incastra il mondo del golf attuale, quello disegnato dalla notte dei tempi da St. Andrews e celebrato ancora oggi in tutto l’Occidente per il suo centenario Spirit of the Game.

Questo stesso mondo del golf si è affacciato relativamente da poco dalle altre parti del mondo, quelle emergenti, con un immediato, discreto successo di appassionati, i quali certamente cresceranno a dismisura nei prossimi anni. Ed è proprio su di loro che si gioca la partita Pga-LIV: queste nuovissime e giovani generazioni di golfisti, arricchitesi a dismisura in brevissimo tempo, preferiranno quel golf old style che conosciamo noi, ancora romanticamente legato alla sua antica tradizione sportiva ed etica, e, per dirla alla Tiger, alla “legacy”, o preferiranno un gioco dove l’unica cosa che conta sono i miliardi in palio e chissenefrega del senso e del risultato sportivo?

Questa è la domanda da farsi. Ed è da farsi ora, quando le visualizzazioni su Golf Channel triplicano ancora quelle dal circuito LIV. Perché è vero, i miliardi dei sauditi sembrano infiniti, ma oggi si è ancora in tempo per gettare anche in quei paesi le basi culturali e sportive per far sì che il golf resti quello sport dal profondo sgnificato etico e morale che sappiamo essere, e non quel circo Barnum innaffiato da carrettate di soldi ma da zero tradizione che abbiamo scoperto la scorsa settimana.

 


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