Per un momento parliamo ancora di Bryson DeChambeau e della vittoria ottenuta a Pinehurst, nel recentissimo U.S. Open.
Al di là del suo strepitoso colpo dal bunker nell’ultima buca del torneo, che giustamente è già stato celebrato in ogni modo possibile, mi piacerebbe aggiungere qualche personalissima, minuscola considerazione.
Partiamo come al solito dai numeri: Bryson ha segnato solo nove bogey in tutta la settimana del torneo, di cui “ben” (…) tre nella tosta giornata di domenica, durante la quale per altro ha centrato pochissimi fairway, rendendosi così la vita in campo ancora più dura. Ma in questi frangenti emotivamente durissimi, DeChambeau non solo ha saputo salvare il par da ogni situazione, ma ha anche e soprattutto fatto alcune cose decisamente meglio di tutti gli altri: ha saputo abbracciare la pressione con tutto se stesso, ha caricato il pubblico e ha persino firmato autografi durante il suo round finale. Insomma, ha giocato a modo suo, non come ci si aspetta da un campione di golf in lizza per un titolo Major.
E ancora, lungo queste epiche, ultime 18 buche, ha insegnato moltissimo a tutti noi: innanzi tutto, che per vincere un torneo (e che torneo!), non bisogna per forza di cose giocare un golf perfetto, ma piuttosto bisogna amare profondamente ciò che si sta facendo. Anche se in quello specifico momento ti fa dannare.
Quindi, rivolgendo lo sguardo ai suoi ultimi anni, in particolar modo a partire dal 2021, ci ha dimostrato come per lui non sia poi stato così importante non ottenere grandi risultati in quest’ultimo lasso di tempo, quanto invece l’aver imparato cose nuove, anche e soprattutto su se stesso. Ci ha insomma mostrato come un approccio non solo tecnico, ma olistico al gioco abbia portato enormi giovamenti al suo golf.
Infine, ecco l’ultima lezione che ci consegna direttamente dalla sua completa storia golfistica: che è solo esplorando i nostri limiti che finiamo sempre per scoprire nuovi territori vastissimi.