Ho avuto l’onore di farmi raccontare in prima persona da Marco Durante, ex giocatore del tour, avvocato e consigliere federale, un giro di golf che è il sogno recondito e ultimo di ogni golfista: diciotto buche sul campo dell’Augusta National, teatro proprio in questi giorni dell’edizione numero 88 del torneo probabilmente più agognato al mondo.
La parola a Marco.
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Nel 2010 c’era l’esordio al Masters di Manassero, che all’epoca era ancora dilettante ed era stato invitato come amateur champion. Sky mi chiese di fare da inviato, e con me c’erano il presidente Chimenti, Antonio Bulgheroni e la compianta Maria Pia Gennaro. In qualità di giornalista accreditato avevo accesso alla sala stampa per le interviste. Succede che in tal luogo mi informano di una lotteria tra i giornalisti per girare il lunedì mattina, ovvero il giorno successivo al termine del Masters. Naturalmente mi iscrivo subito, e poi non ci penso più.
Sabato sera sono alla cena della stampa internazionale. Al tavolo con me c’era tra gli altri Thomas Levet, inviato dalla federazione francese; io ero seduto accanto a Michael Bonallack, che è un monumento del golf: l’amateur inglese più titolato, vincitore di cinque British Amateur, captain di St. Andrews e così via. Ero tutto preso dalla conversazione con lui al punto da non accorgermi di cosa capitava intorno a me; lui aveva percepito una presenza alle mie spalle, capiva che non avevo capito e mi dice “This gentleman has something for you”.
Mi giro e c’erano due soci di Augusta, naturalmente in giacca verde, uno dei quali mi dice: “The Augusta National has the pleasure to invite you for a round of golf on Monday morning”.
Io, che mi ero quasi dimenticato di quella eventualità, a momenti cado dalla sedia.
Chiaramente cambio i programmi: butto via il biglietto aereo per la domenica e ne prendo un altro per il lunedì sera. Al lunedì mattina mi prestano una sacca e faccio le diciotto buche con Shane O’Donoghue, un irlandese che all’epoca era il corrispondente della BBC, e due canadesi. L’atmosfera era fantastica, ovviamente avevamo il caddie vestito di bianco. Le bandiere erano quelle del giorno prima, ovvero del giro finale; i tee sono stati nella metà dei casi quelli dei members e nell’altra metà quelli da campionato. Feci 75, ma ero talmente gasato che quando sono arrivato al secondo colpo della 18 mi sono detto non è possibile, è già finito? In quel periodo giocavo poco, ma mi ricordo ancora oggi quasi tutti i colpi che ho tirato.
L’esperienza nel suo complesso è stata meravigliosa. Ma tutta l’atmosfera di Augusta è incredibile: ti giri e c’è Nicklaus, ti giri e c’è Faldo, ti giri e c’è Tiger. Quell’anno, in particolare, Tiger rientrava dopo lo scandalo, e ricordo l’aura incantevole che aveva intorno a sé. Per un golfista non è il paese dei balocchi, è di più. Un’aria complessiva di grande festa, di tifo. I boati della folla.
Io il Masters lo conoscevo bene da prima, perché avevo visto tutte le edizioni, a partire da quelle trasmesse su Canale 5 negli anni Ottanta; quindi anche se non c’ero mai stato era quasi come ci fossi stato sempre, e avevo – o credevo di avere – nella memoria pendenze e colpi.
Dato che seguivo Matteo, ero con lui al tee della 1 il primo giorno. Lui giocava con Watson ma era tranquillissimo: non sembrava un ragazzino intimidito ma il ragazzo che incontra felice i suoi vecchi compagni di gioco. E tra l’altro chiuse la uno col birdie. (E proprio Tom Watson rientra tra gli episodi curiosi, perché mi sono incartato col microfono per l’emozione di intervistarlo.)
Tra le buche che ricordo con grande piacere c’è la uno: metto il drive in pista e tiro il secondo colpo dritto all’asta. Ho sentito il cuore battere fortissimo e mi sono chiesto ma sono io, lo sto facendo veramente?
Alla quattro avevo capito che il mio caddie era bravo, perché lì avevo fatto un gran colpo e l’avevo messa a due metri e mezzo; lui mi dice lightning fast. Io, che avevo appena fatto tre putt alla tre, seguo le sue indicazioni e la sfioro appena. Penso che farò cinque centimetri; invece la palla piano piano si mette a rotolare ed entra in buca. Birdie!
Alla cinque sono nel bunker di sinistra del green e sono costretto a mettermi gli occhiali da sole per quanto ero abbagliato; e in più ti perdi da quanto è gigante. L’ho messa in green, che di per sé è stata già un’impresa.
Nella parte alta del green della dieci la palla è infermabile, e faccio tre putt. Ma in generale se ad Augusta sei nel settore giusto, allora i due putt sono la norma; se invece sei in quello sbagliato è praticamente impossibile uscire con due putt. Il campo è stato disegnato in maniera intelligentissima, e premia il gioco di ferri.
E poi la undici, che è stato teatro di battaglie epiche, come il playoff tra Faldo e Severiano e l’approccio imbucato da Larry Mize. Col secondo colpo sono a bordo green; il caddie mi indica un punto secondo me in mezzo al nulla. Da fuori non si ha idea di quanto sia ondulato il campo e soprattutto di come siano accentuate le pendenze dei green. A me sembra impossibile che tirando lì la palla vada verso la buca; ma seguo alla lettera le sue indicazioni e faccio birdie.
Ancora, tra i miei ricordi più belli c’è l’approccio a correre dalla valletta di sinistra della diciotto per mettere la palla in green e chiudere in par.
Non volevo che finisse, quella esperienza. All’inizio del giro ero un po’ teso, come in apnea, in fibrillazione per questa occasione (sebbene non ci fosse nulla in palio, oltre al piacere di giocare); dopo tre o quattro buche ho cominciato a rilassarmi e a godermi tutti i colpi, i passi, l’atmosfera, la luce, i colori, e ho vissuto una specie di stato onirico fuori dal tempo, ero come in un iperuranio di questo meraviglioso posto pieno di leggenda, di storia e di emozioni. Avevo totalmente perso il senso del tempo, questo lo ricordo bene, perché mi stavo veramente divertendo, e nonostante non giocassi da tempo stavo anche giocando bene. E quindi sono andato avanti in questa sorta di trance gioiosa, bellissima, e dopo aver tirato il secondo colpo alla diciotto, in quella salita che è molto più accentuata rispetto a quello che si percepisce in televisione, ho cominciato a dirmi ma no, è finita davvero? Io resto qui, io continuo all’infinito, non voglio che questa cosa finisca. Era una sensazione quasi infantile, come quando da bambino non vuoi andare via da una festa in cui ti stai divertendo un mondo.