Amare la competizione: Aldo Casera

La settimana scorsa ricorreva il venticinquesimo anniversario della scomparsa di uno tra i più grandi golfisti italiani, Aldo Casera. Uno dei cosiddetti tre moschettieri (insieme a Ugo Grappasonni e Alfonso Angelini), rappresenta l’espressione di un golf ormai svanito, ma comunque meritorio di essere raccontato: perché come ci ricorda Giovanni di Salisbury, “diceva Bernardo di Chartres che noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’acume della vista o l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti”.

Chi era Aldo Casera? Nato a Sanremo il 31 luglio 1920, vide nascere il Circolo degli Ulivi (fondato nel 1932); e proprio a Sanremo vinse il suo trofeo più prestigioso, l’Open d’Italia del 1948, davanti a due giganti del golf italiano dell’epoca: Pietro Manca, il cosiddetto maestro dei maestri, e Ugo Grappasonni.

Sanremo, Open di Italia 1948

Contribuì a restituire al Circolo degli Ulivi il lustro che il campo – martoriato dalla guerra – meritava. Lavorò per quasi vent’anni come maestro al Golf Club Milano; nel 1963 fu tra i fondatori dell’Associazione Professionisti Italiani di Golf (l’attuale PGA Italiana).
Scomparve improvvisamente nel 1999 per una crisi cardiaca, nella notte tra l’1 e il 2 maggio, dopo aver assistito alla terza giornata dell’Open d’Italia, disputato al Circolo Golf Torino La Mandria in occasione del centenario della Fiat.

Sì, ma chi era l’uomo Casera? Alcuni suoi allievi e persone che a vario titolo lo hanno conosciuto raccontano il personaggio: ne è venuto fuori un ritratto granitico e gioioso.

Roberto Ranzo, suo allievo e oggi maestro al Golf Club Udine, lo ricorda come un uomo all’antica che non si vantava dei successi ottenuti. “Casera ha dedicato la vita al golf. Lui era maestro onorario a Sanremo, e ogni giorno giocava o con gli allievi o con gli amici, portando la sacca sempre a spalla. Negli ultimi anni dedicava il suo tempo non a insegnare, ma a giocare, cosa per cui venne criticato – scioccamente – da certuni: lui a 65, a 70 anni gareggiava con ragazzi di quarant’anni più giovani di lui. Quando nel ‘93 partecipò all’Open del Challenge a Verona, mi raccontò in modo goliardico che era contento quando faceva meno colpi dei suoi anni: all’epoca aveva 73 anni, e fece 72. Era un uomo tutto d’un pezzo, un entusiasta del golf: lui amava talmente tanto il golf che voleva competere per il piacere di competere. Nel ‘92 andò a giocare una pro am a Franciacorta: era un uomo che a 72 anni prendeva la macchina e faceva 400 km per giocare una gara”.

Ma c’è anche l’aspetto tenero: Alessandra Ammirati, maestra a Sanremo e figlia dello storico maestro Giuseppe, ha ricordato che il papà la mandava a fare pro am con Casera: “Mi prendeva un po’ come spalla, anche perché mi conosceva da quand’ero bambina e sapeva del mio desiderio di diventare pro, per cui – anche visto che non aveva figli – mi coccolava tanto. In più io partivo spesso molto presto al mattino per allenarmi, e quando passavo alla buca 5 lui era alla finestra a prendere il caffè, mi diceva aspettami! e giocavamo dalla 6 alla 11 insieme facendo piccole sfide; poi lui tornava a casa. Mi ricordo anche che quando facevo ancora le gare da dilettante, lui si posizionava sul green della 7, in un posto dove cresce il trifoglio; riusciva sempre a trovare un quadrifoglio e me lo regalava in segno di augurio”.

Per contestualizzare, va ricordato che alla destra della buca 5 di Sanremo si trova la casa che fu di Casera; e nel passaggio tra la 5 e la 6 una targa, donata da suoi amici e allievi svizzeri, gli rende omaggio. (Perché qui il discorso è più ampio: Sanremo affonda ben salde le radici nella storia del golf italiano, ed è stato una fucina di maestri, e insomma è un luogo quasi sacro per un golfista. La storia, montalianamente parlando, non dimentica nulla.)

Sanremo, buche 5-6, targa commemorativa posta dagli amici e allievi svizzeri

Un’altra testimonianza significativa viene dal maestro Giacomo Gandelli: “Non sono stato suo allievo, ma mezza vita l’ho passata vicino a lui, ottima persona. Da ragazzino mi dava qualche consiglio – non troppi, perché non aveva molto piacere che gli altri diventassero più bravi di lui. Era un grandissimo giocatore, uno che aveva una grinta che augurerei a tutti i ragazzi di oggi, uno che non mollava mai”.

E ha ricordato un episodio gustoso: “Noi facevamo sovente delle partite qui al golf degli Ulivi, e la buca 13, che ha il green sopraelevato, era per lui tragica. Aldo aveva il problema degli approcci: ha sempre sostenuto che tirava putt come un cane, ma in realtà, con l’andare degli anni e accorciandosi, è stato costretto ad approcciare di più; e commetteva errori perché non aveva mai allenato molto l’approccio. Pativa i putt, tant’è che nei suoi ultimi anni li tirava con la sola mano destra, appoggiando la sinistra al ginocchio, perché diceva che tanto le due mani sul putt non andavano d’accordo. Ad ogni modo, quando arrivavamo a quella buca, noi sapevamo che se la metteva in green avremmo perso. Se invece non prendeva il green, otto volte su dieci faceva flappa – e noi avremmo vinto”.

Lo stesso concetto mi è stato ribadito da Mauro Bianco, anch’egli maestro a Sanremo e figlio di Mario, altro monumento nell’insegnamento del golf a Sanremo: “La sua difficoltà principale non era il putt, come si dice, ma erano gli approcci. Il lato positivo era la precisione nei colpi lunghi. Credo che abbia fatto qualcosa come 28 buche in uno nella sua vita. E amava le scommesse e le sfide: per esempio metteva sul terreno il suo orologio con la cassa d’oro, ci sistemava sopra un po’ di sabbia, poi ci appoggiava la pallina e da lì tirava il ferro 2”.

[Grazie a Lorenzo Giani, direttore del Circolo degli Ulivi di Sanremo, per le foto.]

Ancora Gandelli: “Come uomo era una persona schietta, anche troppo. Gli mancava completamente la diplomazia: quando una cosa gli balzava in testa te la diceva in faccia, non aveva nessun problema. Si arrabbiava molto se sbagliava quando giocava, e in quei casi la sua parola d’ordine era: Perdio!

E poi ha raccontato un altro aneddoto: “All’epoca non c’erano ancora le reti tra la sua casa e il campo, e lui aveva polli e galline che razzolavano in libertà. Un giorno un mio cliente ha fatto un mezzo top e ha preso una di quelle galline in testa, uccidendola sul colpo. Arrivati al pro shop c’era Aldo, cui ha raccontato l’accaduto, e lui ha risposto (parlavano sempre in dialetto): Be’, mangiala, tanto quella è buona!

Mauro Bianco sottolinea ancora una volta quell’aspetto gioioso del golf di Casera: “A lui piaceva molto di più giocare che insegnare. Era un agonista nato; anche durante la lezione era più giocatore che tecnico. Amava il gioco per il gioco, bastava che ci fosse qualcuno per fare una sfida, anche solo con un tee in palio. Dopo che ha smesso di fare gare sui circuiti a livello internazionale facevano tante partite, con papà e con altri maestri. E ho un ricordo tenero di una sfida con mio papà: stavano giocando tutti e due molto bene; avevano pareggiato le prime nove buche, poi dalla 10 alla 14 hanno fatto entrambi 3 a tutte le buche. Alla 15, che è un par 5, Aldo ha detto a papà: ‘Io continuo, tu non so se riuscirai a seguirmi’. E gli ha fatto 3 alla 15 e 3 anche alla 16”.


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