Il golf ora domina anche lo streaming.
Fino a pochi anni fa, l’idea che il golf potesse diventare contenuto da streaming sembrava quasi assurda. Non per mancanza di fascino, ma perché era uno sport legato a un altro tempo: quello delle dirette televisive lente, delle camicie a maniche corte troppo larghe, dei commentatori che bisbigliavano come se ogni buca fosse un rito da non disturbare. Il golf si guardava con rispetto, quasi con timore reverenziale.
Ma poi qualcosa è cambiato. Il golf ha imparato a parlare al mondo. Ha smesso i suoi panni da élite per vestirsi da show. È stato un processo: prima è arrivato Full Swing, il documentario Netflix che ha portato la competizione, lo stress e le rivalità del PGA Tour nelle case di chi pensava che un birdie fosse solo un emoji. Poi sono arrivati i creator su YouTube. Da Rick Shiels a Good Good, da Bob Does Sports al fenomeno della “Netflix Cup”, dove Rory e Morikawa si sono ritrovati in un bizzarro mix tra golf e Formula 1.
Nel frattempo, TikTok ha trasformato le mini golf challenge in format virali, i golf influencer si sono moltiplicati, e Travis Kelce (giocatore NFL e fidanzato di Taylor Swift) ha raccontato in TV che il golf lo rilassa più del Super Bowl. Il risultato? Il golf è diventato mainstream. È entrato nelle conversazioni. Ha smesso di essere sport d’élite ed è diventato linguaggio pop.
E quest’estate 2025 lo consacra definitivamente con due contenuti originali che raccontano il golf in modi opposti, ma profondamente coerenti con il suo nuovo volto.
Da una parte, Netflix riporta in vita Happy Gilmore (in italia purtroppo tradotto in “Un Tipo Imprevedibile”), il film-culto con Adam Sandler, in un sequel che mescola nostalgia, comicità anni ’90 e cameo da Super Bowl halftime show. Dall’altra, Apple TV+ risponde con Stick, una serie che punta tutto sulla lentezza, sulla malinconia, e sulla possibilità di rinascere con un wedge in mano.
Un film e una serie. Un’overdose di nostalgia e una carezza narrativa. Due visioni del golf, entrambe pop, entrambe necessarie. Perché oggi, più che mai, il golf è diventato un linguaggio universale. E lo streaming è la sua nuova club house.
Il ritorno del tamarro più amato della storia del golf
Se qualcuno mi avesse detto che avremmo rivisto Happy Gilmore su Netflix nel 2025, avrei pensato a uno speciale nostalgico o al solito remake in stile operazione commerciale senz’anima. E invece “Un tipo imprevedibile 2” è una creatura strana, imperfetta e contraddittoria, ma con più cuore del previsto. Adam Sandler torna a vestire i panni di Happy, ormai cinquantenne, fuori forma e con il fegato stanco. Non fa più a pugni con Bob Barker, ma lotta con il senso di colpa, la dipendenza e la voglia di lasciare qualcosa di buono a sua figlia Vienna. E per farlo? Ovviamente, torna in campo. Perché è sempre lì che Happy risolve i suoi casini.
Il film gioca a ping-pong tra il fan service e la satira. Ci sono momenti che sembrano usciti direttamente dagli anni ‘90, altri che provano a parlare il linguaggio delle nuove generazioni (vedi cameo random di Bad Bunny o Travis Kelce), e una sottotrama che parodizza apertamente LIV Golf con un antagonista (interpretato da Benny Safdie) che guida una lega “alternativa” chiamata Maxi Golf Tour, più simile a un rave che a un circuito.
I cameo delle star del PGA Tour e del LIV sono ben più che semplici apparizioni: i campioni si mettono in gioco, si prendono in giro e si divertono davvero. Menzione d’onore per Scottie Scheffler. Perché? Vi dico solo che, dopo questa, Scottie potrebbe chiedere l’esenzione da major… ma per cabaret.
Il risultato è una pellicola volutamente sopra le righe, in cui ogni tre minuti c’è un inside joke, un ritorno di un vecchio personaggio (Shooter McGavin in versione pensionato tossico è un piccolo cult), o una scena ipercaricata. Ma nel marasma c’è anche spazio per riflessioni sulla paternità, sulla fatica di crescere, e sul prezzo della celebrità.
A livello tecnico il film non brilla: la regia è funzionale, la fotografia piatta, ma chi cerca virtuosismi qui ha sbagliato sport. Questo è cinema popolare, sgangherato, ma consapevole di esserlo.
E i dati? Happy Gilmore 2 è stato un trionfo per Netflix: 46,7 milioni di visualizzazioni nei primi tre giorni, il miglior debutto USA di sempre per un film originale della piattaforma. E come effetto collaterale, il primo “Happy Gilmore” è tornato nella Top 3 dei film più visti. È ufficiale: il mondo aveva bisogno di ridere sul fairway.
Giudizio finale? Happy Gilmore 2 non è un film per tutti. Anzi, forse è un film per pochissimi: quelli cresciuti con Sandler, che sanno a memoria le battute del primo, e che oggi sono abbastanza grandi per riconoscere che dietro ogni battuta c’è una malinconia reale. Perché sì, anche i clown invecchiano.
Golf, redenzione e Owen Wilson che fa Owen Wilson
Poi c’è Stick, e qui si cambia completamente registro. Se “Un tipo Imprevedibile 2” è un fuoco d’artificio, Stick è una candela accesa in una sera d’estate. Lenta, costante, calda. La nuova serie di Apple TV+ racconta la storia di Pryce “Stick” Cahill, ex prodigio del golf diventato venditore di attrezzatura sportiva dopo un crollo personale e professionale. Lo interpreta Owen Wilson, che per una volta smette i panni dell’eterna spalla e si prende sulle spalle un ruolo più sfaccettato.
Stick è una serie che parla poco, ma dice molto. Non si affida a gag o cameo, ma a dialoghi sussurrati, silenzi, paesaggi, e soprattutto alla costruzione di un rapporto tra Stick e un giovane talento, Santi Wheeler. Una relazione che è tanto mentoring con momenti di tenerezza, tensione e crescita reciproca. C’è golf, certo. Ma il vero campo da gioco è quello emotivo.
A livello di scrittura, Stick è una creatura gentile. Gli episodi scorrono come buche su un campo links: alcuni più lineari, altri pieni di curve. La serie evita il melodramma, ma non ha paura di toccare temi profondi: fallimento, lutto, vergogna, genitorialità. E lo fa con una grazia rara.
La critica è stata generalmente positiva, anche se non entusiasta: alcuni lamentano un ritmo troppo pacato, altri un protagonista giovane poco carismatico. Ma è chiaro che Stick non è pensato per sfondare algoritmi o cercare trending topics. È una serie da scoprire con calma, da gustare come 18 buche al tramonto.
Wilson è perfetto: mai sopra le righe, sempre con quella sua espressione tra l’annoiato e l’illuminato. Il golf, in Stick, non è solo sport. È redenzione, meditazione, modo per rimettere a posto ciò che nella vita si è inclinato.
Giudizio finale? Stick è probabilmente il contenuto golfistico più maturo mai prodotto in serie TV. Niente urla, niente meme, niente parrucche. Solo umanità, fairway e seconde possibilità. Se Happy Gilmore è il colpo con il driver urlando “KABOOM!”, Stick è il putt silenzioso che entra in buca e ti fa venire voglia di chiamare tuo padre.
Il golf conquista lo streaming, ma resta sempre una questione di cuore
Se ci fosse ancora bisogno di dimostrare che il golf è un linguaggio universale, quest’estate ce l’ha ricordato. Due contenuti diversissimi, due approcci narrativi opposti, ma una cosa in comune: il golf come specchio della vita. Tra urla, risate, silenzi e fallimenti. E forse è per questo che ci appassiona così tanto. Perché in fondo, ogni round racconta una storia. E ora, anche le piattaforme streaming hanno deciso di ascoltarla.