Paolo Barbero, caddie, Torino

L’argomento caddie ha suscitato interesse nei miei venticinque lettori (breve riassunto: qui ho parlato di alcuni libri recenti sull’argomento e qui ho pubblicato un’intervista ad Antonio Censi e Pia Locatelli a proposito di un nascente progetto). Oggi proseguiamo il discorso con un’intervista a Paolo Barbero, “vecchio” caddie al circolo golf Torino La Mandria.

Com’è nata l’esperienza di caddie?

Nell’estate del 1988 avevo poco più di quindici anni e cercavo qualcosa da fare per tirare su due lire allo scopo di aiutare i miei genitori a pagarmi gli studi. Un amico mi ha proposto di andare al golf, a Fiano al Circolo Golf Torino-La Mandria. Io sapevo che cos’era il golf, ma lo legavo alla Scozia e all’Inghilterra, non sapevo che esistesse in Italia. Andavamo in bici: alle sette del mattino eravamo là, prendevamo il nostro posto per poi portare la sacca ai soci che lo richiedevano. Si trattava di famiglie di nobili, imprenditori, industriali e professori in medicina. All’epoca non esistevano i carrelli elettrici e nemmeno i golf cart, salvo rarissimi casi di qualcuno che lo aveva fatto arrivare dall’America, quindi servivano i caddie a togliere la fatica di portare la sacca. Col tempo, dopo un certo numero di servizi per la stessa persona, si capiva la distanza che poteva fare con ciascun bastone e gli si porgeva già il bastone.

Tu avevi i tuoi clienti?

Io ero libero per tutti, però se l’ingegner Sergio Pininfarina ad esempio mi diceva ‘sabato e domenica prossimi ci sono’ sapevo che sarei stato impegnato con lui. Andavo lo stesso il mattino alle 7, tiravo fuori le sacche per tutti i giocatori, e poi quand’era ora di partire dedicavo la giornata a lui.

Eravate in tanti?

Nel 1988 eravamo una decina, ma negli anni precedenti c’erano 20-30 persone.

E ora non c’è più nessuno?

No, ora ci si è adagiati alla comodità dell’elettronica, all’orologio che dà la distanza, al carrello elettrico; e anche i ragazzi è più difficile reperirli.

Com’è proseguita la tua carriera?

Io ho iniziato per necessità, poi mi sono appassionato, e appena preso il diploma mi hanno assunto. Sono rimasto lì e sono ancora lì adesso. Quindi la mia vita è questa. Ho visto generazioni di famiglie incontrarsi, fidanzarsi, sposarsi, fare figli, farli soci, giocare, fidanzarsi a loro volta e adesso sono ancora lì. Mentre ora i ragazzi vanno a studiare all’estero, poi magari li recuperi dopo.

I clienti erano soci o anche esterni?

Quando c’erano gare cui partecipavano gli esterni poteva capitarmi di fare il caddie per loro.

Hai fatto il caddie solo al Torino o anche all’esterno?

Al Torino; sono andato in altri campi per accompagnare nostri soci.

Portavi una sacca sola?

In genere sì, ma quando si giocava con le famiglie portavo due o addirittura tre sacche insieme, tramite carrelli a mano [il cosiddetto carry double]: uno lo spingevo e due li tiravo legandoli con una corda elastica tra di loro.

Per quanti anni hai fatto questo mestiere?

Dal 1988 al 1994; poi sono stato assunto, e lo facevo ancora a tempo perso quando avevo il giorno di riposo. E nel frattempo ho imparato a giocare e sono arrivato a 13 di handicap. Ancora adesso quando posso gioco volentieri nove buche, di solito con quelle persone cui portavo la sacca o anche coi figli o addirittura i nipoti.

Una mia curiosità linguistica: coi clienti parlavate in italiano o anche in piemontese?

C’erano delle frasi di golf in piemontese. Era bello rispondere il piemontese. Sì, quell’usanza lì c’era, ed era apprezzata.

Come vedi questa professione oggi?

Si potrebbe riproporre, non sarebbe male. Meno batterie, meno carrelli elettrici, più incontro, più chiacchiere, più simpatia.

Hai fatto spesso il caddie per Sergio Pininfarina. Mi racconti un aneddoto particolare?

Devo dire innanzitutto che lui aveva fiducia nelle mie capacità, nei bastoni che gli consigliavo. Quando sapeva che c’ero io era tranquillo, partiva positivo. Con lui c’era tanta educazione, e ogni tanto qualche battuta.
Più che un aneddoto specifico ti racconto un episodio che si è ripetuto tante volte, con variazioni, e che riguarda proprio la lingua piemontese. L’ingegner Pininfarina aveva problemi intorno al green, faceva lo scattino e di rado riusciva a mettere la palla vicina all’asta. Il maestro gli faceva vedere come fare e gli diceva che era facile. Al che lui rispondeva: è facile come dire Doi povron bagnà ënt l’euli [“due peperoni bagnati nell’olio”, la classica frase che un piemontese chiede di dire a un non piemontese per verificare la sua conoscenza linguistica]. Anche a me chiedeva di ripetere la frase, cosa che mi riusciva bene; mentre il maestro – non piemontese – difficilmente riusciva nel compito, o comunque non bene; e così l’ingegnere poteva riprendere il suo aplomb.

È cambiato il rapporto con i tuoi amici al di fuori del golf da quando sei entrato nell’ambiente?

Sì, perché i mondi erano differenti, e i vecchi amici pareva mi dicessero “ci ti credi di essere?” Io sembravo un extraterrestre rispetto a loro, non era più piacevole. Non venivo più accettato perché ero percepito come “diverso”. Ma io sono contento: sono passati trentasei anni e sono ancora lì, e mi trovo bene. Sono entrato quando il circolo ha festeggiato i settant’anni di vita, nei giorni scorsi c’è stata la festa per i cent’anni. Per i duecento non so se ci sarò. [ride]


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