Tullia Calzavara, professionista dal 2003 al 2009 e vincitrice da dilettante di quattordici titoli italiani, è un nome di tutto rispetto nel panorama golfistico italiano. La sua esperienza è ampia, e nell’intervista che segue esprime concetti interessanti, applicabili anche a noi dilettanti: nella fattispecie l’idea di pensare da pro anche se non lo siamo. Val la pena starla a sentire; e magari possiamo anche apprendere qualcosa di utile per il nostro golf.
Che cosa ha significato per te ritornare dilettante? Quanto è stata sofferta quella decisione e come ci sei arrivata?
Il ritorno non è stato un momento sofferto ma liberatorio: mi sono approcciata al professionismo a vent’anni appena compiuti ma non ero pronta, e soprattutto mi sono resa conto che il golf doveva rimanere un gioco per me, mentre il professionismo lo inaridiva. Nel frattempo, appassionandomi alla psicologia, ai meccanismi mentali che sottostanno ai nostri comportamenti, ho capito che professionalmente volevo dedicarmi all’ambito medico-sanitario e il golf doveva comunque esistere, perché io non ho pensato nemmeno per un secondo di smettere: ho sempre continuato ad allenarmi tanto perché il golf è per me una boccata di ossigeno, un modo per migliorarmi, mi è sempre piaciuto praticare. Quando torni dilettante devi stare fermo un anno; appena ho potuto riprendere le gare ho vinto a Torino la Palla d’Oro, e quindi ho capito che mi piaceva giocare ma nella dimensione più pura, meno commerciale o professionale. Insomma: puoi essere professionista anche senza essere professionista. Ed è una realtà che si sta diffondendo: negli ultimi anni tante ragazze rimangono dilettanti e hanno risultati veramente molto importanti e gratificanti. Ormai il dilettantismo è golf di serie A, e lo dimostrano i risultati.
Quindi: non sofferta, ma una rivelazione, una risposta che ho trovato.
Che cosa rappresenta oggi il golf per te?
Il golf permette alla mia parte più vera e profonda di esistere sempre. Con l’età si tende a chiudersi nelle abitudini (lavoro, routine, casa eccetera), e il golf mi tiene viva. Anche nel rapportarmi con i ragazzi: sono responsabile dell’attività giovanile del mio circolo. Noi abbiamo un settore giovanile molto forte: entrambe le squadre sono in A1, e abbiamo la Trentin golf school che è il nostro fiore all’occhiello perché da lì vengono fuori giocatori promettenti.
È come un angolo di cielo, anche quando gioco male: in quei casi è ovvio che sono arrabbiata, ma sono sempre contenta di essere lì.
Quali sono i tuoi obiettivi nel medio periodo?
Quest’anno per la prima volta l’EGA ha inserito nel calendario mid-amateur europeo anche i campionati a squadre (in Francia a settembre), oltre gli aindividuali. Io spero di farne parte e di rappresentare l’Italia, dopo averla rappresentata come junior e come professionista.
Che cosa ti motiva a praticare tanto?
La motivazione tecnica è quella di avere una buona qualità di gioco, che mi permette di sentirmi molto a mio agio in campo. Poi c’è ciò che per me significa mettere i piedi su un campo da golf, ovvero una sensazione di casa – è come mettermi in ciabatte, praticamente. [ride]
Come strutturi la tua pratica?
Pratico tre-quattro volte a settimana, e tendo sempre a unire la pratica tecnica al campo, perché il golf è un’arte e bisogna sempre riuscire a fare score; quindi allenandomi tanto in campo mantengo contatto con la prestazione. Quando ero più piccola dedicavo più tempo alla tecnica; ora lo swing è quello, e cerco di andare in campo e lavorare sullo score.
Qual è il tuo colpo preferito? E quello che ti mette più sotto pressione?
Se per preferito intendi dove mi sento più rilassata allora è il drive; se intendi quello che mi dà più soddisfazione, allora fare un approccio difficile e metterla data è proprio figo!
Il colpo che mi mette più sotto pressione dipende dalla circostanza, ovvero dalla situazione in cui mi trovo, e dal mio stato di forma (se devo tirare un ferro 5 e ho il lago a sinistra e sto facendo pull, quello mi mette sotto pressione).
Il tuo rimpianto golfistico più grande?
È molto semplice: se da piccola non avessi avuto la testa che non la rompevano neanche col martello, probabilmente avrei passato più tempo in putting green. Però io non riuscivo e volevo solo tirare palle. Se avessi capito allora quanto il putt è fondamentale e quanto è bello imbucare, probabilmente avrei vinto qualche torneo in più.
La tua soddisfazione maggiore?
Sembrerà strano, ma le soddisfazioni più grandi le ho avute quando sono ritornata dilettante: non perché prima non ci fossero, ma perché ho vissuto le vittorie con una maturità e consapevolezza diverse, e soprattutto mi sono trovata più volte nella condizione di essere la capitana e leader della squadra; e vincere in cinque occasioni il campionato A1, a volte essendo l’ultimo match in campo, è stata una gioia immensa. Le gare a squadre mi danno tanta motivazione: sono diventata più uno spirito di squadra.
Come gara in sé, sicuramente quella più importante è il British Girls del 2000.
Trovi che il fatto di essere psicologa ti aiuti nel gioco?
Sì, perché il golf non è solo una disciplina fisica, ma anche un’attitudine, una serie di atteggiamenti e gestione delle nostre emozioni; e più io mi conosco e più so gestirmi, quindi mi ha aiutato molto. Infatti per assurdo io da piccola giocavo malissimo in match play, adesso bene – anche perché so gestire l’avversario.
Il golf è un filo che si snoda nel tempo: che cosa ti senti di poter passare alle generazioni future?
Un concetto che penso di poter trasferire agli altri attraverso la mia esperienza – che è abbastanza singolare – è di essere bravi a cucirsi il proprio vestito addosso, ovvero uscire dalle dinamiche dell’età, del fatto che a una certa età devi fare questo e a un’altra quest’altro, che il mondo è bianco o nero: ci sono tante sfumature e ognuno deve trovare la propria. E questo è utile soprattutto per i giovanissimi, che a volte hanno fretta di vincere e vincere subito, come se vincere prima determinasse una carriera più rosea. Non è assolutamente così, anche perché il golf è uno sport molto mentale e ciascuno raggiunge la maturità in un momento diverso della vita, e soprattutto è uno sport che può essere praticato ad altissimi livelli fino ad età avanzata. Quindi non bisogna aver fretta di raggiungere risultati nell’immediato, perché viene premiato chi semina bene, chi non molla mai e chi è più bravo a cadere e rialzarsi. E dunque il tempo è l’elemento più importante: bisogna capire che a volte si gioca male per l’atteggiamento mentale sbagliato, o perché il nostro corpo ha difficoltà a memorizzare determinate cose. Bisogna avere tanta pazienza.