Nella scena chiave del film “La vita di David Gale”, il professore spiega agli studenti che vivere inseguendo i propri desideri non li renderà felici. Al contrario, realizzarli potrebbe portarli a una profonda insoddisfazione.
Un paradosso?
Solo in apparenza.
Questo concetto, tanto scomodo quanto potente, ha un impatto diretto anche nel mondo dello sport.
Molti sportivi credono che realizzare un desiderio – vincere una gara, ottenere una convocazione, raggiungere un tempo – sia la chiave per sentirsi finalmente completi, per sentirsi bene con se stessi. Eppure, spesso accade il contrario: una volta raggiunto l’obiettivo, la soddisfazione è fugace. Subentra il vuoto. O peggio: l’ansia di dover replicare la prestazione.
Perché accade questo?
Nel momento in cui otteniamo quello che cerchiamo non lo vogliamo più. Per poter continuare ad esistere il desiderio deve avere i suoi oggetti assenti. E non è quella cosa che noi vogliamo ma l’idea di quella cosa che mantiene vivo il desiderio.
Quello che vogliamo quindi è solo il desiderio
Perché i desideri sono infiniti, mutevoli, alimentati da un ideale che sposta sempre l’asticella più in là. In psicologia lo chiamiamo principio del piacere differito: il desiderio non si nutre di ciò che abbiamo, ma di ciò che ci manca. E la mancanza è una compagna fedele di chiunque insegua traguardi esterni per colmare vuoti interni.
La trappola del “Quando Vincerò, Sarò Felice”
La mentalità del “successo come via alla felicità” è un’illusione potente. Eppure, la pratica con atleti di alto livello rivela che più l’obiettivo diventa il centro della propria identità, più aumenta il rischio di crisi esistenziali una volta che l’obiettivo è raggiunto (si veda il post-competition blues).
Lo sportivo che vive solo per il risultato, rischia di perdere il contatto con la parte più autentica di sé: quella che ama la fatica, il processo, il miglioramento quotidiano. Inseguire il desiderio senza consapevolezza conduce alla frustrazione, perché ogni traguardo raggiunto svela nuovi vuoti da colmare.
Cosa resta, allora, oltre il desiderio?
Non si tratta di rinunciare a sognare o smettere di ambire al meglio. Ma di non identificarsi esclusivamente nei propri desideri. La vera forza mentale di un atleta sta nel saper distinguere ciò che vuole da ciò che è.
Allenarsi per diventare, non solo per ottenere.
Come dice David Gale agli studenti: “Il desiderio è un prodotto dell’immaginazione. Ma l’immaginazione non vi salverà dal vivere”. Allo stesso modo, lo sport non vi salverà dalla fatica di essere umani. Ma può insegnarvi ad attraversarla con coraggio.
In conclusione
Nel percorso sportivo, ma anche nella vita, imparare a convivere con i desideri – senza farsi dominare da essi – è un atto di maturità psicologica.
La felicità non sta nel vincere, ma nel sapere chi sei anche quando perdi. E soprattutto, nel riuscire a rispondere a questa domanda, quando il rumore si spegne:
“Se non potessi più vincere, continueresti comunque ad amare ciò che fai?”