Se non migliori è perché ti alleni male

È il segreto di Pulcinella del golfista neurolabile del weekend: pratica, si affanna tra i secchielli del driving range, macina gettoni al campo pratica, ma, nonostante tutti gli sforzi, non migliora. Mai. O, per lo meno, quasi mai. Anzi, alla lunga, complici gli zerbini duri come il pavé di Corso Vittorio Emanuele e le palline sgonfie e pazze come un palloncino d’elio negli ultimi istanti della sua vita, la sua pratica ossessiva altro non si riduce al colpire un pessimo ferro dopo un drive scentrato.

E dunque, com’è possibile che un allenamento del genere non prepari neppure lontanamente a ciò che ci aspetta sul tee della prima buca?

Beh, come finalmente alcuni guru dello swing stanno iniziando a sussurrare, la pratica al driving range sarebbe estremamente sopravvalutata: un po’ come le doti canore di Fedez, per intenderci. Perché?

Perché i colpi che ripetiamo maniacalmente al campo pratica poco o nulla hanno a che vedere con ciò che ci troveremo ad affrontare in campo da lì a poco. Ed è proprio in questa dicotomia tra campo di gioco e campo di allenamento la più grande tragedia del nostro sport: tutti noi ci alleniamo laddove non giocheremo.

Come se Federer si allenasse solo al sottomuro e la Pellegrini in una vasca da idromassaggio: impensabile. Eppure nel golf è così. Ed è per questo motivo che è fondamentale COME si pratica, più che QUANTO.

“Il falso mito dello swing ripetitivo – spiega Luca Salvetti, swing coach della Pga- si sta sgretolando giorno dopo giorno, per lasciare spazio a un nuovo concetto: quello di swing resiliente”.

Senza andare troppo lontano, ne parlava già Colin Montgomerie all’apice della sua carriera, quando raccontava di aver vinto la maggior parte dei suoi titoli non quando era in possesso del suo gioco A (quello in cui funzionava tutto) e neppure del suo gioco B (quello in cui era ok solo una parte), ma piuttosto quando doveva accontentarsi di avere tra le mani il gioco C, quello in cui non gli girava nulla per il verso giusto.

“Proprio di questo si tratta quando parliamo di swing resiliente –continua Salvetti- e cioè di uno swing capace di adattarsi alle variabili del campo e soprattutto alle variabili mentali”.

Il golf, si sa, è uno sport diabolico che altro non fa che accrescere a dismisura l’ossessione da controllo: purtroppo, più si cerca il controllo, più s’impoverisce la nostra capacità di adattamento, che poi, guarda caso, altro non è che la qualità principale che deve possedere il golfista esperto.

“In questo senso –aggiunge Salvetti- è fondamentale avere una buona metodologia di allenamento, di cui però pochissimi golfisti di circolo sono pratici”.

“E infatti –interviene Silvio Grappasonni , per anni giocatore dell’European Tour – la maggior parte dei dilettanti si allena male, perché non è davvero consapevole del proprio gioco: gli amateur pensano di essere carenti in determinate aree del gioco, soprattutto in ciò che concerne il tee shot, ma se tenessero delle statistiche precise, si renderebbero conto che non sono obiettivi quando si parla del loro golf”.

E quindi, come riuscire a migliorare il proprio allenamento e di conseguenza il proprio handicap?

Secondo Luca Salvetti, “bisogna innanzi tutto tener conto di tre componenti chiave: della propria condizione fisica, dello swing e della capacità di attenzione. Partiamo dalla condizione fisica: il corpo è il motore del nostro swing. Se ha delle limitazioni, bisogna capire come interverranno nella fase tecnica e agire di conseguenza con un lavoro mirato. Lo swing che ne scaturirà sarà un movimento che esprimerà le nostre peculiarità. Infine, bisogna conoscere i limiti della propria capacità di concentrazione e adattare il lavoro in campo pratica anche a queste caratteristiche: se dopo 20 minuti sono mentalmente stanco, è meglio andare a giocare tre buche piuttosto che insistere al driving range”.

Tradotto: se si desidera abbassare l’handicap, prima ancora dello swing, bisogna migliorare il proprio percorso di allenamento, rendendolo compatibile alle nostre caratteristiche.

La morale di tutto ciò? Beh, nel 450 a.C. gli antichi greci ripetevano “conosci te stesso”, ma, oltre 2000 anni dopo, mai come su un campo da golf ci rendiamo conto di quanto poco sappiamo di noi.


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