Golf e Cinema

Il golf è uno sport generalmente poco considerato dal cinema: non esiste un numero esatto ufficiale, ma si stima che ci siano una settantina di titoli fra fiction e docufilm incentrati sul golf, contro gli oltre 700 film più o meno equamente suddivisi fra il mondo della boxe, del football americano e del calcio, fra i quali ricordiamo, solo per citarne alcuni, capolavori come “Toro Scatenato”, “Ogni Maledetta Domenica”, “Fuga per la Vittoria”, in cui il riscatto dei protagonisti passa attraverso il successo nello sport.

Difficilmente i film sul golf riescono ad essere emozionanti e coinvolgenti, in parte per la mancanza di confronto fisico e azione continuativa che meglio si prestano alla drammaturgia classica di tensione e rilascio e che rendono più evidente il conflitto fra protagonista e antagonista, in parte perché è molto più difficile far sembrare “epico un colpo di 180 metri giocato dal rough che finisce a pochi passi dalla buca rispetto ad un knock-out sul ring o ad una schiacciata a canestro.

Spesso le storie incentrate sul golf sono più intime e riflessive, seguono lo schema dell’“underdog” che combatte per cercare il riscatto personale in cui il golf diventa una metafora della vita, e questo fa sì che in qualche modo il pubblico le percepisca come ripetitive o prevedibili.

Ci sono sicuramente dei bei film che mettono in scena delle belle storie, come “Il più bel Gioco della mia Vita” che racconta la storia di Francis Ouimet, un ragazzo di umili origini che lavorava come caddie al Country Club di Brookline e nel 1913, contro ogni aspettativa, vinse lo U.S. Open da dilettante. È un bel film, fatto bene e con delle belle intuizioni visive in grado di rendere certe sensazioni che noi golfisti proviamo sul campo, ma alla fine dei conti la storia avrebbe funzionato lo stesso anche in un altro contesto.

Tin Cup”, forse il film sul golf più conosciuto dal pubblico che racconta la storia di riscatto di Roy McAvoy per amore di una donna, si barcamena fra dialoghi mal scritti e personaggi piatti, ma di tanto in tanto ha qualche intuizione divertente (il caddie Romeo che dice che “lo shank è come un morbo: te lo prendi e basta”); probabilmente tutti noi golfisti abbiamo trovato assurda e improbabile la sequenza di palle in acqua tirate da Roy alla 18 nel tentativo di raggiungere il green con il secondo colpo, salvo veder fare la stessa cosa da John Daly alla 6 di Bay Hill, l’anno successivo all’uscita del film (Daly in realtà tentava di raggiungere il green con il drive…).

Una piacevole eccezione è rappresentata da “Phantom of the Open”, titolo orrendamente tradotto in italiano con “La leggenda del Green”: una divertente commedia che racconta la storia surreale di Maurice Flitcroft (l’ho raccontata l’anno scorso e la trovate qui), un operaio dei cantieri navali di Manchester che, stregato dal golf e senza nessuna esperienza, decise di partecipare al British Open e segnò lo score più alto mai ufficialmente registrato dalla R&A in un giro di qualifica, venendo poi bandito a vita da tutti i campi del Regno Unito. È una storia di sogni impossibili e aspirazioni donchisciottesche, in cui tutti noi mediocri dilettanti possiamo in qualche misura immedesimarci.

Seve” è un film un po’ diverso: è un documentario che racconta la storia di Severiano Ballesteros, con una grossa parte di ricostruzione storica della sua infanzia a Pedreña (ben fatta, con bravi attori) e una parte in cui il protagonista è Severiano stesso che racconta le proprie esperienze in prima persona, insieme a quelli che sono stati suoi grandi amici nella vita e avversari agguerriti sul campo. Di tanto in tanto il ritmo è un po’ lento, ma il film è emozionante e potente, più di quanto non riescano ad essere le biografie di Francis Ouimet o di Bobby Jones interamente affidate all’interpretazione degli attori, e a mio parere la ragione è proprio questa: la presenza di Seve in prima persona rende la storia più coinvolgente, quantomeno per noi golfisti che lo abbiamo “conosciuto” e visto giocare.

Altrettanto intenso ed emozionante è, a mio avviso, “Duel in the Sun”, il documentario ufficiale della R&A sul British Open del 1977, vinto da Tom Watson su Jack Nicklaus dopo un‘epica battaglia con continui rovesciamenti di fronte, conclusa all’ultimo putt del quarto giro sul green della 18 di Turnberry. Il film è fondamentalmente un montaggio delle riprese dei 4 giorni di gara, durante i quali Watson e Nicklaus sono sempre rimasti in parità; Watson arriva sul tee della settantaduesima buca con un colpo di vantaggio, e gioca un secondo perfetto a poco più di un metro dalla buca; Nicklaus, dopo un drive erratico, gioca un recupero incredibile dai cespugli riuscendo a mettere la palla in green, imbuca un putt impensabile per il birdie lasciando al suo avversario il metro più lungo della storia per vincere l’Open. L’abbraccio finale fra quei due mostri sacri racchiude tutta l’essenza del golf, e anche se conosco quel documentario “shot by shot” (colpo per colpo, o inquadratura per inquadratura, come meglio vi suona) nessun film riesce a tenermi incollato allo schermo come Duel in the Sun.

Tirando le somme, credo che il problema centrale dei film sul golf risieda nel fatto che c’è troppo golf per i non golfisti e non abbastanza per chi conosce il gioco, e forse per questo motivo trovo più appassionanti le storie vere, perché sul campo da golf la realtà super la finzione. Mi torna in mente l’approccio alla 16 di Augusta giocato da Tiger nel 2005, da una posizione impossibile, con la palla che si ferma un attimo sul bordo della buca prima di cadere dentro: se lo avessimo visto in un film, tutti – golfisti e non golfisti – avremmo pensato “No, dai… questo è troppo!”. Eppure, è successo davvero. La realtà supera la finzione.


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