Ho cominciato a giocare a golf a Margara nei primi anni ’80, e come tutti quelli che hanno iniziato da bambini seguendo i genitori in un circolo di riferimento, per anni ho calcato gli stessi fairway una settimana dopo l’altra, imparando a conoscere il percorso palmo a palmo. Dopo una quindicina d’anni, con tutta la mia famiglia abbiamo cambiato circolo, e l’esperienza si è ripetuta più o meno allo stesso modo a Villa Carolina: ogni fine settimana ci si ritrovava con gli amici a sfidarsi su un percorso che conoscevamo alla perfezione, al punto di non aver bisogno di mappe o telemetri per valutare il colpo che dovevamo tirare.
Fu una grande novità quando aprirono prima le seconde nove buche (avevamo qualcosa di nuovo da esplorare) e un po’ di anni dopo un secondo percorso a 18 buche, ma nel giro di un anno o poco più, dopo aver giocato i nuovi tracciati una trentina di volte, la mia routine si era consolidata, conoscevo perfettamente la strategia per ogni buca e, a parte qualche teeshot che proprio non riuscivo a visualizzare, sapevo esattamente quale sarebbe stato il mio colpo successivo, fatto salvo il caso in cui un drive erratico dal tee mi portava a tirare un secondo da posizioni inusuali.
Da qualche anno a questa parte mi sono trasferito nuovamente e adesso mi sono accasato alle Rovedine, campo su cui avevo giocato diverse volte in passato, che conoscevo bene, ma che ho trovato molto cambiato quando ho iniziato a frequentarlo abitualmente: gli alberi cresciuti hanno ridisegnato certe buche, che adesso ti pongono molti più limiti e non perdonano certi errori; la stessa cosa mi è capitata quando sono tornato a giocare a Margara, dove buche come la 6 e la 7, un tempo completamente aperte e pronte a ricevere drive in qualsiasi punto senza compromettere il colpo al green, sono diventate treeliner delicate, in cui un primo colpo fuori linea ti costringe ad un recupero. Tuttavia, anche con queste nuove difficoltà, ritrovi la solita familiarità con il percorso che certamente concede meno spazio all’errore, ma ti dà la sicurezza di sapere dove sei e cosa devi fare.
Negli ultimi quattro o cinque anni, con gli amici storici, abbiamo iniziato ad andare a giocare in giro più frequentemente, e quando affronti un percorso nuovo per la prima volta le cose cambiano radicalmente: provi quasi una sensazione di spaesamento, consulti la mappa della buca e misuri le distanze dagli ostacoli con il telemetro, ti rendi conto solo in quella situazione che non sai esattamente se il tuo drive fa 210 o 230 metri. Sul campo di casa è facile: sai che più o meno arrivi “lì”, ma quando giochi fuori casa quel “lì” non esiste più e perdi tutti i riferimenti.
Questo ti porta a pensare di più, a giocare un golf più ragionato e meno di “routine”, ti obbliga conoscere a fondo il tuo stesso gioco e spesso ti porta ad esprimere una prestazione migliore. Capitano le situazioni in cui un errore di valutazione sulla strategia con cui affrontare la buca ti porta ad un triplo a ad un quadruplo bogey: solo una volta uscito dal green capisci cosa avresti dovuto fare, e vorresti tornare sul tee per rigiocare la buca che sulla carta non avevi capito.
Con questo non voglio dire che giocare sul campo di casa sia meno divertente o meno impegnativo: ci sono sempre delle buche che soffri di più e che ogni volta percepisci come una sfida, forse proprio perché memore degli errori che commetti ogni volta che la affronti (sempre gli stessi) ti vengono a mancare quella mancanza di condizionamenti e quella incoscienza che hai quando affronti un percorso nuovo.
Mi diverto ad andare in giro a scoprire campi nuovi, così come mi diverto a giocare sulle mie buche di casa, consapevole che nel primo caso i tripli bogey sono frutto dell’inesperienza, nel secondo della eccessiva conoscenza di quegli scheletri che immancabilmente mi porteranno a commettere, per l’ennesima volta, lo stesso errore.