Il golf è frequentemente associato a immagini di lussuosi campi verdi che possono sembrare in contrasto con l’idea di sostenibilità ambientale. Spesso si vedono foto di fairway perfetti in mezzo al deserto, e queste immagini portano a pensare che il golf abbia generalmente un impatto ambientale negativo.
La verità è che un campo da golf, in base alla sua posizione geografica e al modo in cui viene mantenuto, può avere un impatto ambientale terribile o può essere un paradiso a livello di sostenibilità e biodiversità. Nella maggior parte dei casi si tratta della seconda opzione.
Come al solito quando si parla di golf è opportuno partire dalle origini, ovvero dai Links britannici. Il golf nacque in Scozia perchè i campi da golf praticamente già esistevano: per secoli il clima piovoso e gli animali da pascolo hanno mantenuto ettari di prato tagliato basso e in condizioni perfette per giocare. In questi posti non esiste niente di più naturale che un prato “all’inglese”, e in questo ecosistema prosperano migliaia di specie animali.
Quando il gioco si è evoluto ed è stato portato in giro per il mondo, è stato necessario adattare questo sistema alle caratteristiche del luogo. Inizialmente, per necessità, si cercavano habitat adatti alle specie da tappeto erboso esistenti, cercando di integrarle con la flora locale.
Con gli avanzamenti tecnologici del secondo dopoguerra però, è diventato possibile far crescere erba perfetta ovunque. Grazie agli sviluppi tecnologici in ambito agronomico che hanno permesso di creare specie nuove, più resistenti alla siccità e alle varie malattie, la quantità di habitat adatti ad un campo da golf è aumentata immensamente.
Il boom del golf degli anni ’80 però ha portato il golf in ambienti estremi, e sono iniziati a comparire campi da golf in luoghi dove l’erba non era mai cresciuta, come i deserti.
Il problema principale nel far crescere il prato in un clima arido o desertico è la grande quantita di acqua necessaria. In secondo luogo poi ci sono tutti i vari trattamenti chimici e le pratiche agronomiche intensive necessarie per mantenere il tappeto erboso in salute in un habitat a lui ostile.
Questi campi da golf sono tutto tranne che ecosostenibili, ma percorsi di questo tipo sono solo una piccolissima minoranza.
Solitamente l’apporto di acqua e prodotti chimici necessari ad un campo da golf è minimo rispetto a quelli che per esempio si usano in agricoltura, e sono un piccolo problema in confronto a tutti i benefici che un campo da golf porta all’ecosistema.
Le pratiche green
Negli ultimi anni comunque molti percorsi stanno cercando di ridurre ancor di più il proprio impatto ambientale, e l’Italia da questo punto di vista è uno dei paesi leader del settore, grazie anche al lavoro svolto dalla Sezione Tappeti Erbosi della Federazione.
L’azione principale per migliorare l’impatto di un campo è quello di ridurre la quantità di acqua usata. In questa ottica moltissimi campi in Italia sono passati a specie erbose macroterme come la bermuda, in alcuni casi riducendo il fabbisogno irriguo fino al 40%.
Oltre all’acqua, l’altra risorsa che si cerca di usare di meno sono i prodotti chimici. Il loro utilizzo è legato a normative nazionali, e purtroppo in alcuni paesi come gli Stati Uniti non ci sono limiti all’utilizzo di prodotti. Ciò risulta in campi innaturalmente perfetti che spesso danno ai giocatori aspettative non realistiche.
In altri paesi, come il nostro, le normative sono così stringenti che non permettono l’uso di quasi nessun tipo di prodotto. Questo crea enormi difficoltà ai nostri superintendent, e rende i nostri campi meno competitivi a livello di manutenzione rispetto ad altri paesi.
Come in tutte le cose la soluzione è a metà strada. Permettere l’utilizzo di alcuni prodotti permette a queste oasi naturali che sono i campi da golf di esistere economicamente, con un impatto bassissimo di questi prodotti sull’ambiente rispetto ad altri settori che operano su scale ben diverse.
La naturalizzazione delle aree “off-golf”
Uno dei principali trend nel mondo dell’architettura dei campi da golf degli ultimi 15 anni è quello della naturalizzazione delle aree off-golf, ovvero le zone del campo non in gioco.
Questa tendenza, messa in evidenza per la prima volta durante il restauro di Pinehurst n.2 nel 2010, permette di creare habitat naturali per la flora e la fauna locali.
In uno studio effettuato dalla Green Section della USGA è stato calcolato che in media solo il 25% dell’area totale del campo è ad alta manutenzione, ovvero tee, fairway e green. Tutta l’area restante, soprattutto in campi da golf ben progettati, è composta da diverse aree dominate dalla flora locale, come prati naturali, boschi, stagni e zone umide, che forniscono rifugi e fonti di cibo per una moltitudine di specie animali e vegetali.
Questi habitat svolgono un ruolo importante nel mantenimento della biodiversità locale e nell’incremento della presenza di specie native, e sono un vero e proprio paradiso per uccelli e insetti impollinatori.
In un mondo dove le aree cementificate sono in costante aumento e in cui le monoculture agricole distruggono gli ecosistemi, un campo da golf mantenuto intelligentemente rappresenta un paradiso di biodiversità. Basta aprire una mappa satellitare di una grande città per rendersi conto che spesso le uniche aree verdi presenti sono proprio i campi da golf.
L’ampliamento di queste aree off-golf naturalizzate porta un doppio beneficio, perché una volta ripristinata la flora originaria la manutenzione di queste aree è minima, facendo risparmiare tempo e soldi ai greenkeeper che possono così aumentare le attenzioni dedicate alle aree in gioco.
Queste aree naturali poi rendono il campo anche più bello a livello estetico. Non c’è niente di più bello del contrasto di un fairway verde immerso in una prateria in fiore o naturalmente gialla, soprattutto quando porta benefici a tutti: ambiente, golf club e golfisti.