L’ultimo weekend di ottobre, per me, segna una data di scadenza: la fine della stagione golfistica. Quando torna in vigore l’ora solare e alle 5 del pomeriggio comincia a fare buio, è segno che devo ritirarmi dal campo da golf, e andare in letargo fino alla fine di marzo, quando tireremo di nuovo indietro di un’ora le lancette dell’orologio.
Le giornate si accorciano, comincia a fare freddo, il campo è pesante, la palla non vola e quando atterra si impiccia nel terreno fangoso: molti giocatori che conosco non si fermano davanti a queste “difficoltà”, ma a me passa improvvisamente la voglia, forse per una forma di pigrizia mentale, o forse perché gioco a golf da talmente tanto tempo che quando sono in campo voglio godere del tepore del sole e dell’aria fresca a 20 gradi – quella che ti dà il piacere di tenere addosso il gilet per non far raffreddare i muscoli della schiena – e quando finisco di giocare mi piace restare con gli amici a bere un paio di birre fresche all’ora dell’aperitivo, e non un brodino per scaldarmi alle 4 del pomeriggio.
È vero che ci sono le novembrate, quelle splendide giornate invernali di luce frizzante e temperature che fingono di essere primavera, ma le tengo buone solo per tirare qualche palla in campo pratica con i compagni di sempre, o al limite per un giro di mezzi colpi sulle buche executive: ormai i miei neuroni golfistici sono entrati in modalità dormiente.
“Non esiste il brutto tempo, esiste solo l’abbigliamento inadeguato” (D. Homer Davidson)
Ammetto che quando vedo in televisione i giocatori del Tour combattere contro il campo in condizioni estreme, sotto una pioggia incessante, flagellati dal vento gelido delle Highlands, provo un certo senso di ammirazione, ma questo sentimento rimane strettamente confinato entro il perimetro del mio divano.
Senza arrivare agli eccessi a cui devono sottostare i professionisti, per quanto mi riguarda anche solo le temperature sotto i 15 gradi sono un deterrente: non mi piace giocare intabarrato come un esploratore artico, sentendo l’umidità che penetra attraverso la suola delle scarpe e le mani fredde che non riescono a impugnare il bastone, e ricevendo ad ogni swing la scossa delle vibrazioni del bastone in tutti i muscoli del corpo; l’unica cosa che riesco a pensare, in quella situazione, è che non vedo l’ora di tornare in club house.
Forse il vero golf è fatto anche di questo, ma purtroppo – o per fortuna – non lo faccio di mestiere e ho il privilegio di poterne cogliere solo il bello, e parte di questo bello, per quanto mi riguarda, sono le condizioni climatiche.
Amato campo da golf: ci rivediamo ad aprile. E sarà ancora più bello.