Un golf più green?

Per fare un albero ci vuole un seme, ne sono sicuro, ma per fare un golf più green cosa serve? Questa è la domanda che mi faccio al rintoccare delle 18, le ore come le buche di un campo, nell’uggiosa Milano; il telefono squilla, la pioggerella cadenza il ritmo. Sto chiamando Stefano Boni, una mente (e un cuore) che più green non si può.

Stefano, buonasera: io sono a Milano, qui piove, lei dov’è?

«Sono al Golf Club Albarella, nel verde, e 350 daini stanno camminando or ora sul campo.»

Partiamo bene, inizio già a rosicare per l’invidia.

Volevo capire cosa serve per fare un golf più green, ma prima mi piacerebbe sapere da dove nascono la sua passione e la sua esperienza nel golf.

«La mia esperienza nasce da giocatore, non vengo da una famiglia di sportivi. Mi sono appassionato per caso al golf, guardando il cartone “Tutti in campo con Lotti” e ascoltando Mario Camicia commentare il golf su Canale 5 e Rete 4: Mario aveva quel modo di raccontare che, in 50 minuti, non ti potevi non innamorare del golf.

Poi, a 21 anni al mio circolo, al Golf Tirrenia, cominciai il mio primo lavoro come starter; da lì tanti altri ruoli: segretario, greenkeeper, feci il corso di superintendent presso la Scuola Nazionale di Golf e oggi sono Direttore qui, al Golf Albarella

Sì, ma io so anche di tanti altri ruoli. Le dico un paio di nomi: Golf Business International e Golf Environment Organization (GEO)…

«Ah sì, a me piace proprio il golf e l’ho affrontato a 360 gradi. Il lavoro doveva per forza passare per il golf, poi i ruoli sono venuti: ho fatto l’esame di arbitro, segretario e direttore, dove ho conosciuto, sui banchi di scuola, Alessandro Bellicini. E poi mi sono iscritto e diplomato alla Club Manager Association Europe, perché ero curioso di approfondire alcune tematiche. Il golf mi piace tantissimo. »

Ok, lo sapevo, è la persona giusta per parlare del tema green!

Passione, golf, ambiente e sviluppo sostenibile: un golf sempre più green, come e cosa si può fare?

«In realtà il golf è già green.»

Il mio cervello va in tilt: siamo già arrivati al GreenHorizon?

«Sin dagli anni novanta in Federazione si era già capito che rendere il golf più green era fondamentale per renderlo sostenibile come sport sul lungo periodo e, inizialmente, anche per migliorare l’immagine dell’opinione pubblica degli anni “80 che considerava il golf come “consumatore di risorse” e “inquinante”. In quegli anni c’erano, a dir vero, anche alcuni investimenti golfistici che però si portavano pesantissimi investimenti immobiliari: per questo si aveva l’idea che golf e ambiente fossero antitetici. Ora non è così.»

Come verificarlo? Tranquilli, c’è una sezione dedicata sul sito della Federgolf. C’è anche una “Green section”, di cui Stefano fa orgogliosamente parte dal 2010 insieme ai colleghi Alessandro De Luca, Massimo Mocioni e Marta Visentin, in cui potrete leggere la storia.

Torniamo al green, sono rapito dalla conoscenza e dal racconto.

«Il primo passo si è fatto con la certificazione “Impegnati nel Verde”, poi sviluppatasi nella certificazione “Committed to Green”. Ora siamo arrivati al progetto Golf Environment Organization (GEO), la certificazione ambientale più importante nel mondo del golf, riconosciuta da R&A e St. Andrews, l’EGA e European Tour, Associazione Europea degli Architetti di Golf, quella dei Greenkepers, ecc. La stessa Ryder Cup, da questa sponda dell’oceano, deve essere certificata GEO, certificata come evento verde. In Italia sono già 16 i campi che hanno ottenuto la certificazione e circa una trentina si sono attivati per ottenerla. L’Italia è anche il primo paese ad aver certificato un evento green amatoriale: si tratta del Venice Open di US Kids Golf.»

Bellissimo!

«Tutto questo è stato possibile grazie ad un lavoro di sensibilizzazione dei direttori e dei superintendent su queste tematiche grazie alla scuola federale. Ricordo un superintendent che mi disse che faceva 10 trattamenti fungicidi; appena finita la scuola, passò a 2 trattamenti. Il miglior riconoscimento che io possa avere.

La scuola insegna a mantenere il tappeto erboso nella miglior condizione di salute possibile, con il minor spreco di risorse possibili.  È grande l’impegno del golf italiano nell’ambiente.»

Scuola e informazione, ma anche ricerca.

«C’è sempre più disponibilità di risorse ed informazioni anche su internet, tipo sul sito di USGA che dà molti spunti interessanti, e poi tante sono le ricerche da parte della Federazione.»

Ne prendiamo una ad esempio: una ricerca triennale ornitologica su 46 Circoli italiani ha dimostrato come nei golf nostrani ci siano più di 107 specie nidificanti di cui 47 a priorità di conservazione. I risultati ottenuti con la ricerca confermano che i percorsi di golf rivestono un ruolo importante per la conservazione dell’avifauna, contribuendo alla diversificazione del mosaico ambientale.

E per quanto riguarda le varietà di erba? Quali sono quelle del futuro? Mi correggo, meglio, presente.

«Anche sui tappeti erbosi stiamo facendo tanta ricerca che ha permesso di passare, sui fairway, dalle erbe microterme (della famiglia graminaceae, resistente ai climi freddi ma non alla siccità) alle macroterme, come la famosa Bermuda, o la Zoysia Japonica. Tutte le ricerche e i test effettuati hanno permesso di adottare la Bermuda anche al nord Italia. Il risultato? Oltre il 50% di risparmio idrico, azzeramento quasi totale dell’uso dei diserbanti (a partire dal secondo anno) e maggiore resistenza alle malattie. Ci sono solo ancora alcune deroghe ma sono temporanee; i fitofarmaci, qualora vengano utilizzati, sono usati prevalentemente sui green, che sono meno di 1/60 della superficie di un campo di 60 ettari. Sono solo degli esempi. E la ricerca continua…»

Cosa frena la diffusione di queste varietà più resilienti?

«E’ solo la diffidenza che frena dal passare da una Agrostis alla Bermuda perché in alcuni mesi diventa “gialla”. Ma con delle trasemine durante il periodo invernale, ad esempio di Poa, il problema non si pone nemmeno. Durante tutto l’anno si possono avere superfici di ottimo livello.»

Un campo bello e bio, si può!

Stefano poi prosegue il discorso e mi illumina su tecniche meccaniche di agronomia, verticut, carotatura e chiodatura, su impermeabilizzazione di bacini idrici, acidificazione delle acque di irrigazione per debellare le malattie, sensori di rilevamento di umidità del terreno, biostimolanti per la salute e la crescita delle piante, ricerche genetiche sulle varietà di erba a maggior resistenza e adattamento all’ombreggiatura.

Sembra fantascienza fatta green! Ma è già tutto vero.

E poi ecco la chicca, mi parla di un trend accentuato dal Covid:

«Non potendo mandare le persone in campo, tanti club hanno scoperto che si può tagliare meno. Ci sono zone che non entrano in gioco in cui si è abbandonato il taglio. Queste zone non solo definiscono ancora meglio il campo esaltando le linee di gioco, ma hanno anche un effetto pazzesco sulla fauna: daini, cicogne, marmotte, istrici, cinciarelle, fagiani, insetti impollinatori ritornano a vivere in queste aree. Non si può rendere davvero giustizia alla varietà.»

Il golf italiano è un grande safari.

«La tendenza a naturalizzare sarà sempre maggiore. Ovviamente queste fasce devono essere messe in zone intelligenti. Devono solo essere sfalciate un paio di volte l’anno stando però attenti a non farlo in periodo di nidificazione. Il golf è già green, manca solo la percezione che lo sia.»

Non mi aspettavo ci fosse dietro un lavoro così ampio, e così in stadio avanzato. I campi sono in buone mani, le tecniche e le tecnologie prendono piede…ma cosa manca?

«Quando si parla di sostenibilità green manca la sostenibilità a livello sociale e culturale. Il campo può essere gestito in maniera virtuosa ambientalmente, ma per la comunità lo è? Il campo di golf non è solo per i golfisti.»

Tra me e me rifletto. Ecco il vero GreenHorizon, sono salvo: c’è ancora molto da fare.

«Il golf sta diventando e deve diventare multifunzionale: per andare a pesca, passeggiare in sentieri naturalistici, corse campestri, bird watching…il golf, non è solo golf, va oltre. Pensa a tutti i circoli di montagna che diventano piste da sci di fondo in inverno. O ai club che hanno aperto le loro porte diventando vere e proprie aule per ragazzi e bambini o, ancora, a quelli che hanno creato progetti di sostegno per persone in difficoltà, coltivando e producendo direttamente nel terreno del circolo miele, olio, liquori, marmellate, farro biologico. Anche questa è una tendenza che sta prendendo sempre più piede, non solo in Italia.»

La strada è giusta, forse manca ancora un po’ di organicità? 

«Un pezzo qui, un pezzo là, la strada è buona ma bisogna dare man forte, comunicare gli sforzi e soprattutto bisogna vedere il tutto come un ecosistema golf. Un ecosistema che, aprendosi, si autoalimenta e alimenta la sua stessa bellezza.»

Per un attimo cade la linea. Mentre richiamo Stefano penso a quante cose devo ancora provare e scoprire: l’olio bio d.o.p. fatto al Golf Sanremo (denominato non per niente circolo degli Ulivi), vedere le marmotte curiose al Golf Claviere, correre la campestre al Golf Le Fronde, lo sci di fondo al Golf Courmayeur, il farro bio di Castelfalfi (ma davvero lo fanno?!) e mille altre…

Stefano, un giorno verrò a trovarla ad Albarella. Mea Culpa, non ci sono ancora stato.

«Quando passi di qui assaggerai il miele del Links, il miele di laguna, e il “The spirit of the links” fatto da un liquorificio locale con il cardo mariano del nostro campo»

Spero presto. Grazie di cuore, mi ha aperto un mondo.

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